Gino Castaldo per “la Repubblica”
Ai limiti del sogno proibito. David Gilmour torna sul luogo del delitto, 45 anni dopo, nell’esatto posto in cui fu fissata in modo indelebile una delle più solide e incrollabili icone rock: i Pink Floyd a Pompei. Entrare nell’arena fa un effetto straniante, un complicato brivido fatto di incroci di spazio e di tempo, come se un vecchio monumento si risvegliasse da un antico torpore, prendesse improvvisamente vita, si riempisse di gente e magie musicali.
E basta l’attacco di Wish you were here per trasformare l’anfiteatro pompeiano nel più potente tempio musicale che la cultura rock possa offrire al mondo degli adepti. Allora fu un’idea bizzarra ed estrema: un concerto per i fantasmi dell’antichità, senza pubblico, nel deserto delle rovine che furono preservate da un immane disastro vulcanico.
Oggi il pubblico riempie il cerchio centrale e le gradinate dell’anfiteatro con la solenne consapevolezza del privilegio (del resto pagato carissimo, con biglietti a 345 euro), una solennità per nulla attenuata dai venditori degli scavi che fuori dai cancelli chiamano: «signò, tenimm’e vasette cu Gilmùr », voci e moine che si spengono nella ruvida e ancestrale forza delle pietre che circondano il palco.
La prima vera sorpresa la regala lanciando nello stupore della platea un’intensa The great gig in the sky, il pezzo centrale di Dark side of the moon, l’essenza magica e irrazionale di quel disco. E all’inizio della seconda parte non manca One of these days, il più celebre e potente dei pezzi del concerto originale di 45 anni fa. Man mano che la sera avanza la musica sembra un magnete che attira presenze.
Lo stesso Gilmour ringrazia i fantasmi, vecchi e nuovi, rende omaggio al genius loci che qui, viene quasi da sorridere a pensarci, è una specie di affollato convegno e non potrebbe essere altrimenti. È possibile rivivere uno dei concerti che più hanno segnato l’immaginario rock. Gilmour allora sfidava con la sua giovinezza la bellezza olimpica delle statue, e infatti il regista Adrian Maben (anche lui presente in platea come a voler sorvegliare la celebrazione di quella sua fortunatissima idea) ammiccava, sovrapponeva al suo volto quello di un Apollo pre-eruzione.
Oggi con la sua rigorosa e integra maturità ricorda più le fattezze di un severo senatore romano, ma l’emozione è palpabile. Il grande schermo circolare che in perfetto stile Pink Floyd campeggia sulle teste dei musicisti, tra le rovine di Pompei sembra un disco solare, un tributo pagano agli dei della musica, sottolineato dai bracieri che si accendono sopra le gradinate.
I classici Pink Floyd qui possono arricchirsi di altri significati, a cominciare dal ricordo di Syd Barrett, il folle visionario che “inventò” il progetto Pink Floyd, scomparso esattamente il 7 luglio di 10 anni fa. Le note di Shine on you crazy diamond, al lui dedicata, vibrano fino alle viscere della terra, sembrano chiamare come testimone il vulcano stesso che si erge poco lontano.
Cambia o cresce di senso Wish you were here, dove l’epica universale del tema dell’assenza si sposta fino a comprendere i fantasmi millenari di Pompei. Per non dire di The great gig in the sky, il pezzo col quale i Pink Floyd di allora cercarono addirittura di misurarsi col tema della morte. Il palco è più sobrio del solito, non ha copertura, risponde all’esigenza inevitabile di rapportarsi a uno spazio limitato, e per di più iper-protetto.
GILMOUR A POMPEI GILMOUR A POMPEI 2 GILMOUR A POMPEI 2
Ma questo maggiore raccoglimento non fa che accrescere il fascino della serata, i tremila spettatori sanno di essere qui per vivere un’esperienza indimenticabile, e il concerto di David Gilmour, sembra fatto apposta per esaltare la bellezza della musica, la sua chitarra vola con ineguagliabile eleganza, vibra come una bacchetta magica, non spreca una sola nota, la voce è magnifica, opacizzata dal tempo ma ancora orgogliosa, fiera, quando grida: «Money, it’s crime!». Alla fine anche gli Dei ringraziano. Aspettavano da 45 anni che qualcuno tornasse a intrattenerli.