Marco Ciriello per “il Mattino”
ultima edizione storie nere dagli archivi del quotidiano la notte
Un giornale scomparso è sempre una civiltà sepolta, se poi quel giornale era illustrato da fotografie che non potranno più essere scattate, perché morbose, voyeuristiche, violente, con la sola mediazione di un lenzuolo bianco e a volte senza nemmeno quella, allora siamo di fronte a una civiltà sepolta nuda, come non lo sarà mai più.
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I delitti ci riportano ai primordi, all' essenziale; il sangue e le armi ci fanno leggere il tempo passato; il resto è contesto: strade, palazzi, cucine, boschi, canali, campagne, bar, automobili, e come collettore un cadavere, ecco un libro straordinario che viene fuori dall' archivio di un giornale La notte, pubblicato dal 1952 al 1995 che raggiunse 250mila copie e che usciva con tre edizioni al giorno, e che aveva dietro un ritmo di lavoro pazzesco: giornalisti, fotografi, redattori e poligrafici che lavoravano a ciclo continuo, tanto che solo dopo anni si sono accorti del servizio reso al tempo presente, un tempo pieno di privacy ma senza umanità.
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«Non ci tiravamo indietro, facevamo il nostro mestiere con uno spirito più aggressivo della maggioranza dei giornali italiani». racconta Livio Caputo, direttore de La notte dal 1979 al 1984 «Detto cinicamente, molti delitti avvenivano nell'ora giusta per la nostra redazione: verso le 8 di mattina, mentre noi chiudevamo alle 10. Si faceva giusto in tempo ad uscire con una notizia che i giornali del mattino non avevano. Mi ricordo molto bene la strage di via Moncucco, otto morti in un ristorante. Andarono i miei ragazzi, facemmo in tempo a mandare in stampa la seconda edizione e arrivammo sul posto con le copie in mano allo strillone prima che portassero via i cadaveri. È una delle cose di cui sono più orgoglioso».
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Il libro è Ultima Edizione. Storie nere degli archivi de La Notte (Milieu edizioni) di Salvatore Garzillo, Alan Maglio e Luca Matarazzo, che hanno rimontato fotografie e testi, sentito testimoni e interrogato esperti, regalandoci un album fotografico che ci appartiene, anche se quei morti non ci riguardano, ci riguarda la violenza e le modalità che l' hanno generata e la grammatica giornalistica che ci restituisce quelle storie; tra i giornalisti che crebbero in quella gazzetta illustrata, che montava veri e propri film sui casi, dei fotoromanzi con delitto, c' era anche un giovane Vittorio Zucconi, cronista di nera con obbligo di tornare con la storia e soprattutto con le foto, dietro licenza di poterle anche rubare.
Come raccontava Zucconi nella sua biografia e come racconta Maurizio Donelli nel libro: «A quei tempi si entrava nella notizia, non c' erano limiti dettati dalla privacy.
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Bisognava essere cattivi. Per noi la fotografia era fondamentale: quando usciva un cronista sul fatto era sempre accompagnato da un fotografo. Non si poteva tornare in redazione senza una foto. Non ne vado fiero ma una volta ho rubato l'annuario di una scuola elementare per recuperare il ritratto del bambino protagonista della storia che mi avevano assegnato. Il direttore disse che se fossi tornato a mani vuote mi avrebbe licenziato. E non scherzava».
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Era un giornalismo per campioni che allenava al cinismo e alla violenza, corrispondenze di guerre domestiche, dal fatto al racconto, dove bisognava prevaricare e cacciare, dove lo scippo diventava l' anima del giornale. Dove il giornalista poteva e doveva sconfinare stando giusto un attimo dietro il punto di vista della polizia.
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Ci sono foto impressionanti e altre che sono meglio di intere collane di gialli, ci sono didascalie e titoli da romanzo e facce da cinema, c' è dentro l' ultima vera periferia italiana con il suo dolore e le sue atrocità, quando non venivano prima gli italiani ma la loro solitudine, l' isolamento rispetto alla civiltà.
Ne viene fuori un mondo spontaneo, senza sovrastrutture, naturale e per giunta con l' istinto da giungla che ha generato la violenza, si guarda e si viene guardati, inquirenti e inquisiti, ritratti nella domesticità della morte. La notte portava in altri luoghi la possibilità di guardare la morte senza conseguenze, lo specchiarsi in quello che aveva coinvolto le vite degli altri, la giusta distanza da un brivido.
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