Simona Siri per “la Stampa”
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Barry Kennedy oggi ha 62 anni, ma quando la polizia bussò alla porta della casa che divideva con i genitori e le due sorelle se lo ricorda ancora. Aveva quattro anni e come tanti altri bambini indigeni fu prelevato e portato alla Marieval Indian Residential School, un collegio gestito per decenni dalla Chiesa cattolica nella provincia canadese del Saskatchewan. Qui, lo scorso giugno, seppelliti nel terreno della scuola, sono stati ritrovati in tombe di fortuna, senza iscrizioni né altri segni riconoscitivi, i resti appartenenti a 751 tra bambini e bambine.
Quello di Marieval è il più grande ritrovamento del suo genere, ma non è l'unico: già a maggio i membri della tribù Tk' emlups avevano trovato una fossa comune contenente altri 215 corpi nei pressi del collegio di Kamploos, nella British Columbia, anch' esso gestito dalla Chiesa cattolica. Altri 182 resti erano stati trovati vicino ai terreni dell'ex Scuola della Missione di Sant' Eugenio gestito dalla Chiesa cattolica dal 1912 fino all'inizio degli Anni 70.
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A oggi sommando le fosse comuni delle diverse scuole si arriva a oltre 1.100 bambini, alcuni non più grandi di tre anni. Un vero proprio genocidio culturale toccato a oltre 150 mila appartenenti a Inuit, Métis e Prime Nazioni, le popolazioni indigene che abitavano il Canada da ben prima che si chiamasse Canada. Uno sterminio operato in nome della "civilizzazione" di questi bambini, prelevati a forza, picchiati, umiliati, spesso abusati sessualmente e psicologicamente. «Ho subito violenza dal momento in cui sono arrivato», ha dichiarato Kennedy alla televisione canadese CTV News Channel.
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«Tutto era portato avanti con la forza fisica: venivamo schiaffeggiati, presi a pugni e a calci. Il cibo che ci davano era così rancido che spesso vomitavamo per averlo mangiato, e poi venivamo costretti dai sacerdoti e dalle suore a mangiare il nostro stesso vomito. Questo è quello che abbiamo subito, unito alla confusione di chiederti dov' è la tua famiglia, perché sei lì da solo». Una verità fatta di dettagli agghiaccianti difficili persino da immaginare, atrocità che però «devono essere riconosciute non solo in Canada, ma in tutto il Nord America affinché questo serva come grido di dolore mondiale sugli effetti del razzismo sistemico».
Florence Sparvier un'altra sopravvissuta agli orrori della Marieval Indian Residential School ha ricordi che la perseguitano ancora oggi. «Erano davvero molto cattivi. Quando dico che ci hanno martellato, intendo letteralmente presi a martellate. Eravamo costretti a pregare il dio cattolico, mentre suore e sacerdoti ci dicevano che i nostri genitori e i nostri nonni non avevano modo di essere spirituali, perché eravamo tutti pagani. Ci hanno sminuito come popolo e lo stanno ancora facendo».
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Umiliazioni e soprusi che ricorrono nei racconti di chi è riuscito a uscire vivo, nonostante tutto. Come Elizabeth Sackaney ex studentessa della St. Anne' s Residential School nel Nord dell'Ontario. Il suo ricordo indelebile è quello di una sedia elettrica. «C'era questa sedia, e un tunnel sotterraneo che portava direttamente all'ospedale», ha dichiarato a News Morning, ricordando come all'epoca certi episodi fossero vissuti come divertenti, come un gioco, quando in realtà si trattava di crudeltà gratuita.
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«I preti si mettevano in piedi su un balcone e da lì ci lanciavano le caramelle. Noi litigavamo tra di noi per prenderle, ci azzuffavamo, e loro lì a ridere. All'epoca pensavamo fosse un'attività spassosa, ma ora, quando ripenso a queste cose, capisco che non erano divertenti. Era tutto molto serio». Un sentimento che accomuna Sackaney, così come Kennedy e Sparvier, è la necessità di non addolcire la verità su quello che accadeva in quelle scuole.
È l'unico modo per trovare una qualche forma di chiusura, insieme al fatto che la Chiesa Cattolica deve fare la sua parte, ad esempio rendendo pubblici i documenti relativi alle morti avvenute sotto la sua direzione. «Se vogliamo ottenere una qualche forma di riconciliazione come Paese, queste verità devono essere conosciute, dobbiamo essere disposti ad aiutarci a vicenda e la Chiesa deve essere in grado di rispondere a ciò che le comunità indigene hanno il diritto di sapere». -
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