Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”
Paolino, sei un bambino di settant' anni, ingenuo come i pargoli evangelici. E te ne sei andato. Dovrei dire che eri, che lo fosti, che adesso la mia è una finzione patetica. Gli amici se ne vanno però poi tornano. Non so come eppure li ritrovo talvolta nella notte. Mi è capitato con Oriana Fallaci. Aspetto che mi accada con te. Nell' attesa mi tocca scrivere un articolo su chi sei, anzi, chi fosti, maledizione sei morto, perché eri un grande, e i lettori hanno diritto di sapere chi hanno perduto.
La bisogna professionale impone dunque di piegare con cura il fazzoletto, metterlo in tasca, lascia dell' umido sulla coscia, bisognerà cambiarlo. Paolo Isotta, il più illustre musicologo e storico della musica degli ultimi cinquant' anni, è deceduto ieri mattina nella sua casa di Napoli, dov'era nato ed ha sempre vissuto (persino quando lavorava a Milano, poi correva alla finestra da dove scorgeva il mare e Capri).
Non è stato solo un grande scrittore e critico delle opere e dei giorni di Verdi, Mozart, Beethoven, Rossini e dell' intero Olimpo dei compositori e dei loro esecutori. La sua cultura attingeva dovunque un uomo avesse seminato arte e bellezza. Qualsiasi libro da lui scritto riserva questa sorpresa.
I lavori sui musicisti richiedono attenzione spasmodica, come una salita su ardue e tempestose cime, ma da lassù si ammirano paesaggi sconfinati, Isotta mostra oltre l'orizzonte delle note. In altri libri, i più recenti, offre divagazioni godibilissime mai però dispersive: conduce sempre al centro delle questioni per cui vale la pena vivere e morire, foss'anche l'arte di vestir bene, da un sarto partenopeo, ovvio, perché gli altri sono tutti inferiori.
Non sono noto per l'insana virtù della modestia, di rado mi sento inferiore. Al suo paragone diciamo con benevolenza che mi sentivo inferiore sì, ma appena appena. Rispetto al resto del mondo non solo giornalistico ma culturale lo separava un abisso di sapienza, eleganza, genio. Il suo italiano non ha paragoni, nella forza e nella delicatezza, come Arturo Benedetti Michelangeli attingeva tutti i colori della tastiera, pure quelli che non ci sono.
Qui tra i suoi libri consiglio, tra quelli per così dire meravigliosamente specialistici Il ventriloquo di Dio (1983), dedicato all' influenza della musica su Thomas Mann, e il recentissimo Verdi a Parigi, 28, e soprattutto 668 pagine, del resto - mi scuseranno i melomani - le opere del maestro di Busseto sono alquanto abbondanti. Confesso di essere innamorato dei suoi zibaldoni. Anzitutto La virtù dell' elefante: La musica, i libri, gli amici e San Gennaro (pagine 592, 13) che non è la sua autobiografia, bensì la biografia dell' universo passata da quel luogo imperdibile che è la sua memoria.
Uso ancora il tempo presente. Bisogna scrivere "era". Era la sua memoria che diventa la nostra. Altro testo che paragono a una cornucopia traboccante gemme, rose, melograni, con intorno gatti ronfanti e tigri sbrananti, mentre il pettirosso familiarizza con la zanzara, è Il Canto degli animali. I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia (pagine 447, 22). Gli ultimi tre volumi sono pubblicati da Marsilio.
Lì ha finalmente trovato accoglienza Isotta, dopo che era stato gentilmente accompagnato alla porta del Corriere della Sera da Ferruccio de Bortoli. Ben sei editori avevano respinto La virtù dell' elefante. Temevano di inimicarsi certi poteri forti che avevano preteso la sua testa quando aveva osato criticare duramente, diciamo usando il rasoio, alcune opere proposte alla Scala di Milano.
Isotta era stato dichiarato "non gradito" dal sovrintendente della Scala Stéphan Lissner. De Bortoli aveva dichiarato inammissibile questa prepotenza illiberale. Poi però, qualche tempo dopo, nel preciso istante del pensionamento di Isotta, non lo aveva ammanettato alla scrivania (eufemismo), ed aveva sospinto verso la quiescenza il fuoriclasse napoletano nel pieno della sua potenza di scrittura. A sessantacinque anni in discarica.
(Se pensiamo al casino fatto per difendere il posto di Enzo Biagi in Rai quando aveva 81 anni, del resto - e giustamente - mai messo a riposo dal Corriere vita natural durante, capiamo il torto subito da Paolo ma soprattutto dai lettori del quotidiano di via Solferino).
Ho parlato di Corriere della Sera. Era arrivato da Il Giornale. Sono in grado di raccontarne tutte le peripezie, la meritata gloria e le indecenti persecuzioni dal momento in cui approdò a Milano. Lavoravo nel cosiddetto "Palazzo dei giornali", di proprietà Eni, dov' era situata la redazione de La Notte, avendo per direttore Nino Nutrizio. A un altro piano del condominio di piazza Cavour a Milano Indro Montanelli stava preparando l' uscita del suo quotidiano.
Quando incontrai Isotta, era il 1974, questi era appena stato ingaggiato, giovanissimo (24 anni ma già cattedratico al Conservatorio). Mancavano due mesi all' esordio in edicola del Giornale nuovo (si chiamava così).
Paolo era seduto a un tavolo del ristorante "Gatto nero", in via Senato. Con lui alcuni colleghi, tra cui Salvatore Scarpino, soprannominato l'Avvocato per la sua abilità oratoria esibita scherzosamente allorché si discettasse di questioni di diritto. Paolo era elegantissimo, indossava un abito impeccabile di taglio partenopeo, il più apprezzato dagli intenditori. Fraternizzammo subito.
Mi stupirono il suo eloquio forbito nonché le idee che egli esternava, totalmente distoniche rispetto all' andazzo politico dell' epoca, ma sintoniche con quelle cavalcate da Indro, famoso bastian-contrario. La conversazione con lui era per me un elisir emozionante. Quando poi iniziai a leggerlo sul Giornale neonato, ebbi la conferma delle sue doti eccezionali.
I suoi articoli erano semplicemente mirabili, in particolare nel campo musicale. Me ne accorsi perché fin da ragazzo mi dilettavo suonando il pianoforte, ed ero pure persuaso di non essere sprovveduto in materia; ma non appena divorato un paio di pezzi di Paolo, ebbi la sconfortante certezza di essere un semianalfabeta di ritorno, e di andata, delle sette note e della tastiera. Amen. Me ne feci una ragione, anche se seguitai a strimpellare, ma solo dopo il secondo whisky. Alcuni anni più tardi, Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera, lesto e birbante, assunse in via Solferino il critico del Giornale, ovvero Isotta, con tanto di contratto regolare e firmato. Figuriamoci cosa accadde. Montanelli si sentì tradito.
Il Corriere lo chiuse nel Lazzaretto. Il Comitato di redazione (potente sindacato interno) si oppose all' ingresso del giovin talento. Motivo ufficiale: il Corriere aveva già un critico musicale, Duilio Courir (come se un giornalone del genere non potesse averne due). Motivo autentico: Paolo non era comunista e nemmeno di sinistra.
La querelle durò anni e anni. Risultato: Isotta non era autorizzato a vergare neppure una breve. Veniva in redazione - saltuariamente - e si girava i pollici, poi se ne andava, inutilizzato. Una situazione manicomiale, che Di Bella non riuscì a sbloccare in quanto in balìa dei tribuni, in quel periodo padroni assoluti del vapore.
Scoppiò lo scandalo della P2 e avvenne un cambio alla direzione: fuori Di Bella, dentro Alberto Cavallari. Ottimo giornalista, pessimo comandante, soprattutto ostaggio del sindacato rosso. Isotta rimase in panchina un altro triennio. Un fenomeno imbavagliato per ragioni politiche e sindacali. Lui e io ci consolavamo a vicenda. La nostra amicizia si consolidò. Qualche pranzo, qualche cena, parecchi sacramenti.
Ne abbiamo viste di ogni colore. Condividevamo uno sgabuzzino, dove eravamo stati confinati. Finalmente Piero Ostellino fu chiamato al timone del Transatlantico cartaceo e la rotta mutò. Isotta attaccò a fare il suo mestiere con perizia e per fortuna non smise più di esercitarlo fino al sopra citato incidente. Amava e difendeva Riccardo Muti, non riteneva all' altezza Claudio Abbado e i suoi allievi, venendo perciò scomunicato e moralmente piazzato su un rogo dai vedovi e soprattutto dalle vedove di Abbado. La redazione di via Solferino, sempre fiorente di comunisti e similari, non mosse un dito per difendere un patrimonio del Corriere (e di Milano). Un gigante della penna fu così accompagnato all' uscita. Da tre anni collaborava a Libero, ma il suo genio aveva trovato nei libri il luogo di un esercizio fatato.
Fino alla sua partenza per i Campi Elisi, su cui ha scritto pagine luminose e dolci, ma che mi rifiuto di cercare, non voglio rileggere per un po' le sue prose, i testi dove raccontava della nostra amicizia che si pensa immortale, però aspetto di parlargliene se si fa vedere una di queste notti.
CON LUI IN VESPA A NAPOLI
Ho detto però che dovevo far conoscere Isotta più da vicino ai lettori. Siamo negli anni '80. Il Corriere mi mandò a Napoli per un servizio. Isotta si offrì di venirmi a prendere in stazione con la sua Vespa. La prima cosa che mi disse fu: «Togliti 'o Roléx», pronunciato alla napoletana, con l' accento sulla "e".
Paolo Isotta foto Salvatore Pastore
A metà strada ebbe un bisticcio con un altro scooterista per questioni di viabilità. Era una delizia ascoltare Paolo che insultava con un linguaggio forbito lo sconosciuto dandogli del voi. Solo che a un certo punto perse la pazienza e, passando al pronome di seconda persona singolare, sbottò: «Tu a me mi à fa' sulamente 'nu bucchino!».
Molti anni dopo, leggendo sul Foglio uno spassoso dialogo di Isotta con Pietrangelo Buttafuoco, che gli chiedeva conferma della voce secondo cui egli fosse omosessuale, ho capito che quello era il suo linguaggio abituale quando non discettava di Wagner o di Verdi. «Io faccio tutte cose, comme si dice a Nnapule, so' attivo e passivo. Cco mascule e cco femmene. Ma nisciuno me può cchiammà gay. Io so' ricchione. 'O gay se vuo' 'nzurà.
Napulitanamente parlando, sposarsi. Ma tu te rienti cunto? Oggi i spusalizzi 'n 'è vuò ffà cchiù nisciuno, e sulo 'e ricchiuni e 'e ricchiesse (le lesbiche, ndr) i vonno fa'. I gay ca sa vonno spusà sono bovaristi e stronzi! Vonno 'a consacrazione sociale e religiosa!». Se non avete capito, non fa niente. Immaginatevi la musica. Puro crescendo rossiniano.