RECITANDO IL PADRE-MOSTRO - “CRICCHIETTO CHE M’HAI FATTO FARE...”: LA MICROSPIA REGISTRA SULLA TOMBA LA CONFESSIONE DEL PADRE CHE HA BRUCIATO VIVO IL FIGLIO - LA TRAGEDIA DOPO FEROCI CONTRASTI TRA I DUE

I carabinieri lo sospettavano da tempo: dopo due anni e mezzo l’hanno incastrato. Prima lo ha colpito alla testa con un bastone, ne ha trascinato il corpo in una vecchia Mercedes in disuso, e poi ha dato fuoco alla vettura. Agli inquirenti diceva che il giovane si era suicidato. Da mesi litigavano per la gestione dell’azienda di famiglia...

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Alessandra Ziniti per “La Repubblica

 

Stefano Di Francesco, il padre assassino Stefano Di Francesco, il padre assassino

«Cricchietto, ma che m’hai fatto fare...». Guarda la foto di suo figlio Piero sulla lapide di marmo e finalmente “confessa” rivolgendosi a lui con il nomignolo con il quale lo chiamava da bambino. È lo sfogo che i carabinieri aspettavano da due anni e mezzo per incastrare quel padre sospettato sin dall’inizio di aver assassinato il figlio mettendo poi in scena un suicidio.

 

Ed è la microspia piazzata dagli uomini del nucleo investigativo dei carabinieri di Caltanissetta a captare quelle parole che ieri hanno fatto scattare le manette ai polsi di Stefano Di Francesco, imprenditore 63enne di Riesi, ora accusato dalla Procura di Caltanissetta di aver ucciso, per contrasti legati alla gestione dell’azienda di famiglia, suo figlio Piero, 30 anni, il cui corpo devastato dalle fiamme fu ritrovato proprio dal padre il 9 gennaio del 2012 sul sedile posteriore di una vecchia Mercedes in fiamme nel piazzale dell’azienda.

 

«Sembra la trama di un romanzo, ma purtroppo è realtà», commenta il procuratore aggiunto Nico Gozzo prima di ricostruire l’indagine del pm Roberto Condorelli, partita dall’autopsia del corpo della vittima che rivelò come Piero Di Francesco fosse stato violentemente colpito alla testa prima di essere dato alle fiamme e bruciato vivo. Stordito ma ancora vivo, come rivelarono le tracce di fumo nei polmoni.

 

Di Francesco arrestato Di Francesco arrestato

Bruciato da quel padre violento, con il quale era in forte contrasto da mesi così come l’altro figlio Eugenio, e che quella mattina del 9 gennaio 2012 lo affrontò prima nel piazzale dell’azienda, la Tecnoambiente, lo colpì alla testa probabilmente con un bastone, ne trascinò il corpo sul sedile posteriore di una vecchia Mercedes in disuso e la diede alle fiamme coprendo poi la vettura con dei detriti prelevati con una pala meccanica.

 

«Con la terra volevo provare a spegnere le fiamme», disse ai carabinieri che lui stesso aveva chiamato e che solo dopo l’intervento dei vigili del fuoco scoprirono il corpo del giovane. «Piero si sarà sicuramente suicidato ». Stefano Di Francesco fu il primo ad avallare la tesi del gesto mentre cercava di consolare la giovane vedova Giusy e i due nipotini che proprio lui aveva reso orfani.

 

Piero di Francesco, il figlio ucciso Piero di Francesco, il figlio ucciso

Ma c’erano troppe cose che non quadravano, a cominciare dalle testimonianze di amici e parenti. Nessuno in famiglia trovava un solo motivo per il quale Piero potesse aver deciso improvvisamente di uccidersi. E poi c’erano quei contrasti feroci con il padre, dichiarato fallito e allontanato dall’azienda alla quale, negli ultimi tempi, dopo la riabilitazione aveva provato a riavvicinarsi cercando di estromettere il figlio maggiore, Eugenio.

 

Piero difendeva il fratello e resisteva alle intemperanze di quel padre la cui violenza si era manifestata solo pochi mesi prima, quando aveva preso a martellate proprio Piero, che però non aveva voluto sporgere denuncia. E poi c’era quella tanica di benzina con il tappo e soprattutto quelle tracce di sangue, poi risultato essere di Piero, trovate dai carabinieri sul piazzale, poco distante dalla macchina bruciata.

 

Se Piero si era suicidato dandosi fuoco, certamente non si era prima colpito da solo alla testa ferendosi. Il padre, iscritto subito nel registro degli indagati, si era rifiutato di rispondere alle domande degli inquirenti. Al cimitero, a trovare suo figlio, accompagnava spesso la moglie. Da lì la scommessa dei carabinieri di piazzare sulla tomba la microspia che ha registrato quella sorte di “confessione”: «'Insieme eravamo i migliori, a noi nessuno ci fermava: guarda cosa mi hai fatto fare...».

 

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