L’ombra di Cosa nostra americana si allunga sulla strage di Capaci. Ci sarebbe stato “un uomo di John Gotti“, un misterioso esperto si esplosivi. A raccontarlo in aula davanti la corte d’assise d’appello di Caltanissetta, che sta celebrando il processo di secondo grado sulla strage di Capaci – è stato il pentito di mafia Maurizio Avola.
Il collaboratore di giustizia è indagato con Maurizio D’Agata. Avola ne aveva già parlato all’inizio della sua collaborazione con la giustizia, nel 1994, dopo aver confessato 80 omicidi, ma non aveva ancora rivelato chi fosse l’esperto artificiere americano. Lo ha fatto solo nei mesi scorsi, parlando con i magistrati di Caltanissetta.
“Un mafioso americano nel commando di Capaci” – Oggi lo ha ripetuto in aula dicendo che si trattava di un uomo di John Gotti, il capo della famiglia Gambino di New York. Alla sbarra nel processo di secondo grado Salvatore Madonia, ritenuto capomandamento della famiglia di Resuttana, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. In primo grado furono tutti condannati all’ergastolo, tranne Tutino che venne assolto per non aver commesso il fatto.
capaci falcone moglie e ragazzi della scorta
“Il forestiero arrivò a Palermo nei primi mesi del 1992, sarà stato tra marzo e aprile, aveva circa 40 anni, capelli castani, occhi scuri, alto 1.85, corporatura robusta e vestito in maniera molto elegante. Lo incontrai a Catania, a casa di Aldo Ercolano, che mi disse: ‘Oggi hai conosciuto una persona importante”. “Ci spiegò come sistemare l’esplosivo e come posizionarlo, come usare il detonatore, per evitare l’interferenza. Ricordo che i detonatore aveva un antennino molto piccolo”. Poi l’esplosivo sarebbe stato consegnato, come dice oggi Avola “a Cosa nostra palermitana”. “Ho consegnato l’esplosivo e due detonatori – dice Avola collegato in videoconferenza – poi i telecomandi li abbiamo mandati successivamente. Si è provato il telecomando, lo hanno modificato ed è stato spedito una settimana dopo”.
“Così portai l’esplosivo a Palermo”- Avola ha spiegato di aver fisicamente trasportato l’esplosivo dall’altra parte della Sicilia. “L’esplosivo era morbido, della consistenza del pongo. Era all’interno di bidoni utilizzati per le olive. Ercolano mi disse di preparare due di questi bidoni pieni. Si parlava del fatto che si doveva fare la guerra allo Stato a partire dai magistrati. Lo abbiamo trasportato con una Fiat Uno bianca. Siamo arrivati a Termini Imerese e l’abbiamo lasciato in un rifornimento.
I telecomandi li abbiamo consegnati dopo, quindici giorni prima della strage di Capaci”, ha raccontato. Il pentito aveva sostenuto di aver trasportato detonatori e tritolo provenienti da Messina e Reggio Calabria. “Non so quale fosse la marca di esplosivo che era contenuto nelle casse che portammo a Termini Imerese. Sicuramente c’era il T4, quello con la consistenza del pongo. Gli altri panetti erano un pò più piccolini di forma tondeggiante e di colore marrone scuro. Non so dire se l’esplosivo che ho maneggiato sia il Semtex”.
Il poliziotto indagato si difende – Prima dell’inizio dell’udienza sono stati depositati i verbali del confronto avuto il 7 marzo scorso tra Giovanni Peluso, l’ex poliziotto indagato per la strage in cui morirono Giovanni Falcone e gli uomini della scorta, e il suo accusatore, il pentito Pietro Riggio. Peluso si è difeso: “È dimostrabile, non ho potuto materialmente esserci. Perché stavo al corso per sottufficiali, come facevo ad andare a Capaci?”.
L’ex sovrintendente della Polizia di Stato, con un passato in servizio a Napoli e Roma, è stato iscritto nel registro degli indagati da per associazione mafiosa proprio in seguito alle dichiarazioni del pentito Riggio. Secondo l’accusa della procura di Caltanissetta Peluso avrebbe ricoperto il ruolo di “compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci”. Secondo Riggio, Peluso avrebbe addirittura messo sotto l’autostrada il tritolo che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. “Peluso mi disse ma tu sei sicuro, credi ancora che il tasto del telecomando l’abbia premuto Brusca?’ Io rimasi spiazzato.
‘Mah – dissi -non lo so perché mi dice questo. Però ho intuito subito, nell’immediatezza dei fatti, che sicuramente conosceva, sapeva qualche cosa, o diretta o de relato o non so come, che gli facesse affermare questa cosa che Brusca effettivamente non avesse premuto lui”.
“Una task force per prendere Provenzano” – Il pentito durante il confronto ha raccontato anche altro: “Nel 1999 fu creato il progetto di fare una specie di task force per la cattura di Bernardo Provenzano”. Un progetto al quale avrebbe partecipato Peluso. “Ci conosciamo. Noi siamo stati insieme al carcere di Santa Maria Capua Vetere nella seconda parte del 1999. All’interno di questo carcere, oltre a Giovanni Peluso, ho conosciuto Giuseppe Porto, Pasquale De Nicola e Vacca, che era un pugliese, anche lui poliziotto. All’interno dello stesso carcere, diciamo fu creato un progetto di fare una specie di task force al momento in cui sarei stato scarcerato, per giungere alla cattura di Bernardo Provenzano e quindi dare tutte quelle che erano le indicazioni di mia conoscenza affinché ciò avvenisse”. Per Riggio “il progetto si sviluppo, nel luglio, il 10 luglio 1999 sono stato prelevato al carcere di Santa Maria Caputa Vetere da personale della Dia di Roma, portato a Roma e…”. Lì avrenne incontrato “il colonnello Pellegrini, l’allora capocentro della Dia di Roma unitamente a un certo zio Tony, avevo ricevuto giorni prima da parte di Giuseppe Porto una missiva, un telegramma, in cui si diceva il modo con cui lo avrei riconosciuto”.
La ricusazione – Prima dell’inizio dell’udiezna, la difesa dei boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino ha presentato istanza di ricusazione della Corte. L’annuncio è stato dato dai legali dei due imputati all’inizio dell’udienza. Nei giorni scorsi Tutino e Madonia sono stati condannati all’ergastolo nel processo d’appello Borsellino quater dalla stessa Presidente della Corte Andreina Occhipinti. “È una anticipazione di giudizio – spiegano i legali – le fonti di accusa sono sempre le stesse”. L’istanza è stata depositata alla Corte solo ieri. “Ne prendiamo atto, a fine udienza daremo la parola ai due imputati”, ha spiegato la presidente Occhipinti.