Natalia Aspesi per "la Repubblica"
La nuova Semiramide non è più la lussuriosa peccatrice assassina regina dell’Assiria molto a.C., ma una manager sbrigativa in completo pantaloni che licenzia senza scampo marito e amanti prima che gli dei o il nuovo padrone facciano fuori lei.
La mitica regina arriva domani sera, corti capelli biondi, tacchi alti, con uno di quegli spettacoli mitici che davvero si possono vedere soprattutto a Pesaro, che festeggia il quarantesimo anno del suo amatissimo nel mondo festival rossiniano. Semiramide è forse l’opera più bella di Rossini e ne è sicuro anche il giovane e carino Michele Mariotti, ormai uno dei più geniali e più richiesti direttori d’orchestra, pesarese del mondo.
È vero, questa ultima opera scritta in Italia e data in prima assoluta alla Fenice di Venezia nel 1823 dal compositore trentenne, è davvero meravigliosa, incantatrice: e l’altra sera alla prova generale, i pesaresi bon ton erano come impietriti, applaudendo ad ogni aria e overture e rendendo quindi interminabile l’opera già lunga più di 4 ore, dimentichi della creme caramel casalinga di 150 uova che li attendeva alla cena di mezzanotte da Paola Tittarelli, presidente dei sostenitori del festival, Rossiniani incalliti, che dalla Nuova Zelanda o dal Giappone arrivano qui ogni anno donando denaro.
Trama ispirata alla tragedia omonima che insensatamente Voltaire scrisse per la nascita del delfino di Luigi XV, che si rivelò una bambina per di più nata morta: Semiramide è complice dell’ambizioso Assur nell’avvelenamento di re Nino suo marito: quando il comandante Arsace torna al palazzo, innamorato della principessa Azema, come pure lo sono Idreno re dell’Indo e lo stesso Assur, la vogliosa regina se ne innamora e lo vuole sposare, finché Oroe, capo dei Magi, molto vendicativo, rivela ad Arsace che lui è figlio di Nino ed è stato rapito fanciullo. Non credo sia necessario nascondere il finale, cioè Arsace che per sbaglio ma mica tanto, ammazza mamma. Secondo il libretto si prevede un palcoscenico zeppo di satrapi, magi, babilonesi, sciti, e egiziani, indiani, donzelle, fanciulli, fanciulle, guardie reali, principesse ecc.
E il mago-regista inglese Graham Vick esegue in abbondanza aggiungendo un tocco freudiano, un lettino azzurro con piccino prima del rapimento, un orsacchiotto marinaretto alto almeno dieci metri, due grandi lavagne con disegni infantili a gesso, una bimba con coltello insanguinato, un bimbo con corona tutto macchiato di rosso: poi due enormi occhi da vecchio che seguono la vicenda, sino a quando lo stesso vecchio, cioè l’immagine del re assassinato, appare come fantasma, completo azzurro, bastone azzurro, capelli azzurri, faccia azzurra con mascherina dipinta di rosso.
Tale è l’impegno a seguire queste continue sorprese che si rischia di non abbandonarsi ai languori, alla violenza, alle emozioni, agli spaventi della musica di rara bellezza (orchestra sinfonica della Rai) che il sorprendente cast assicura: la Semiramide georgiana (il soprano Salome Jicia), l’Arsace armena (il mezzosoprano Varduhi Abrahamyan), l’Assur argentino (il basso Nahuel Di Pierro), l’Idreno italiano (il tenore Antonino Siragusa), l’argentina Azema (il mezzosoprano lirico Martiniana Antonie), l’italiano Oroe (il basso Carlo Cigni) che con suoi adepti, forse per ragioni negromantiche, è tutto nudo e impolverato, uno straccetto sulle pudenda e enorme capigliatura a stringhe, non si sa se come certe figure assire incise nella pietra o come aborigeni australiani.
La magia carica di tensione emotiva (i più svegli fremono rapiti) si dilata nei duetti a palcoscenico quasi vuoto: loro due soli, gli amanti Semiramide e Assur, che si rinfacciano i loro delitti e intanto si accarezzano e si minacciano, e poco dopo Arsace che rivela a Semiramide di non poterla sposare perché suo figlio: lamenti disperati, carezze figliali, promesse di essere una famiglia dopo aver fatto fuori chi lo merita. La prima Semiramide fu la moglie di Rossini, Isabella Colbran, il primo Arsace Rosa Mariani, mentre dieci anni prima, in Aureliano in Palmira il compositore di un’altra regina amante di un altro Arsace, interpretato da Giovanni Velluti, l’ultimo castrato rossiniano.
Al massimo l’Arsace di Mariotti -Vick, trattandosi di una bella ragazza con un bel seno che sboccia dal giubbotto di pelle e ondeggia durante i gorgheggi sotto un po’ di raso bianco, più che a un ventilato incesto fa pensare a una dolcissima liaison lesbienne. Questo “melodramma tragico” in due atti, chiesto da Rossini a Gaetano Rossi dopo un primo successo anche alla Scala di Milano, fu abbandonato come la maggior parte delle opere serie di Rossini, ma in questo caso perché considerato troppo tradizionale e perché non si trovavano più interpreti in grado di sostenere parti così difficili, le cavatine, i fraseggi che il realismo musicale aveva abbandonato.
Quindi se ne fece uno scempio, tagliando personaggi e brani; a Pesaro si dà l’edizione critica della Fondazione Rossini, sublime ricostruzione dell’opera originale, che però si può dare solo se c’è un cast di perfetto bel canto e resistenza: come questa volta, anche giovani, anche belli, anche emozionanti. Lunedì sera il dramma serio Demetrio e Polibio, martedì il dramma giocoso L’equivoco stravagante, per quattro cicli, più concerti, incontri, e ogni possibile omaggio al nume cittadino.
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