IL SESSANTOTTO? INIZIA NELL'ESTATE DEL 1960 - QUANDO L’ITALIA SCESE IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO TAMBRONI (MONOCOLORE DC CON L’APPOGGIO DETERMINANTE DEL MSI), SI ACCESE DEFINITIVAMENTE IL DESIDERIO DI RIFORME E MODERNITÀ IN UN’ITALIA INGESSATA, CHE CULMINERÀ NELLE PROTESTE STUDENTESCHE DEL ’68 - LA RIVOLTA CONTRO IL GOVERNO TAMBRONI ERA DIVAMPATA A GENOVA PER LA DECISIONE DEL MSI DI TENERE IL SUO CONGRESSO NELLA CITTÀ MEDAGLIA D'ORO DELLA RESISTENZA…

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1 - 1960, L'ITALIA RISCOPRE LA PIAZZA

Marco Revelli per “la Stampa”

 

le proteste contro il governo tambroni le proteste contro il governo tambroni

È il 30 giugno 1960. Genova. Sono da poco passate le 18, quando in Piazza De Ferrari scoppiano i primi incidenti tra i reparti della Celere arrivati da Padova e gruppi di manifestanti. Si è appena concluso il grande corteo convocato dall'Anpi (l'Associazione nazionale partigiani) e dalla Camera del lavoro che aveva proclamato lo sciopero generale cittadino per protesta contro il Congresso nazionale del neofascista Movimento sociale, convocato il 2 luglio nel centralissimo Teatro Margherita.

 

fernando tambroni fernando tambroni

La sfilata, aperta dai comandanti partigiani della Liguria e dai gonfaloni della città medaglia d'oro della Resistenza, si era snodata ordinatamente per concludersi in Piazza della Vittoria col discorso del Segretario della Cgil. Ma la folla non si era dispersa. Folti gruppi si erano trattenuti nelle strade, spingendosi fin dentro la «zona rossa», delimitata da uno schieramento impressionante di polizia e carabinieri, e giungendo fino alla piazza considerata da tutti il cuore della città, dove i reparti della Celere in tenuta antiguerriglia avevano tentato di disperderli con due idranti e i caroselli delle camionette, ottenendo tuttavia l'effetto contrario.

 

Gli scontri si erano allargati. I dimostranti erano cresciuti di numero: ex partigiani (erano allora sui 40 anni), camalli del porto di tradizione e vocazione antifascista, soprattutto giovani, la vera novità dell'evento, le cosiddette «magliette a strisce» (le canottiere alla James Dean diventate simbolo del ribellismo di una generazione).

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E avevano resistito sfruttando la prossimità della rete di vicoli (i famosi carrugi), usando i mezzi di lavoro come strumenti (i ganci dei portuali lanciati per arpionare le camionette), contando sull'appoggio della popolazione che dai balconi bersagliava gli agenti con lanci di oggetti e vasi di fiori. Ad alimentare quella reazione, da molti non prevista e soprattutto sottovalutata dal governo, era il senso di provocazione subita da una città simbolo della Resistenza, quella dove era avvenuta la prima resa incondizionata dei tedeschi e che aveva pagato un pesantissimo tributo di sangue.

 

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Alimentava la rabbia la notizia che tra i missini presenti ci sarebbe stato quel Carlo Emanuele Basile, soprannominato la «Jena di Genova» per aver diramato nel 1944, in qualità di prefetto, i bandi che portarono alla deportazione di 2 mila operai di Sestri e Cornegliano. E che il governo aveva nominato per l'occasione questore quel Giuseppe Lutri che durante la Repubblica sociale si era distinto a Torino nella lotta alla rete resistenziale.

 

Un sentimento d'indignazione, dunque, cui aveva dato voce due giorni prima, in un comizio «non autorizzato» ma molto partecipato, Sandro Pertini in un appassionato discorso, in cui aveva detto: «La polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà ad indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori».

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Un discorso che gli varrà l'appellativo di «u bricchettu», il fiammifero, per aver dato in qualche modo fuoco alle polveri di quelli che saranno ricordati come i «fatti di Genova». Prodromo di quella crisi che costituisce per molti versi uno spartiacque nella storia dell'Italia repubblicana e che va sotto il nome di «Luglio Sessanta», vera e propria cerniera tra il centrismo ormai esaurito e il centro-sinistra non ancora nato. All'origine dell'esplosione genovese non c'erano solo ragioni «locali».

 

Si colloca nel pieno di una tormentatissima congiuntura nazionale costituita da quell'anomalia profonda che fu la breve, brevissima parabola del «governo Tambroni»: il governo monocolore presieduto dall'on. Fernando Tambroni, nato all'inizio di aprile 1960 dalle convulsioni interne a una Dc incapace di scegliere con chiarezza e dilaniata da lotte intestine.

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Un governo con un premier che sintetizzava l'ambiguità fatta persona nel proprio curriculum zigzagante tra destra e sinistra, promosso dal presidente Gronchi con l'intenzione di «fare da ponte» verso un centro-sinistra non ancora maturo (un monocolore con appoggio esterno socialista) e trasformatosi in aula nel primo governo democristiano nato con l'appoggio determinante dei voti neofascisti.

 

Nella stessa contorta vicenda della sua nascita (costretto a dimettersi dallo stesso Presidente della Repubblica dopo un primo voto alla Camera per essere ripescato poco dopo e mandato alla fiducia al Senato per mancanza di alternative), si esprime il carattere bloccato dell'Italia di allora, paralizzata nel confronto tra un blocco conservatore indisponibile a qualunque apertura (un pezzo di Chiesa pre-conciliare, una Confindustria dominata dagli armatori, un apparato dello Stato ancora innervato dai postumi del fascismo, un forte potere della rendita) e le sempre più estese esigenze modernizzatrici favorevoli a un cauto riformismo.

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Si spiega così la ragione per cui, anche dopo la cancellazione del Congresso missino a Genova, la tensione non si estinse, ma anzi si estese e crebbe drammaticamente, con una disseminazione di morti, in Sicilia e soprattutto a Reggio Emilia, dove sotto il fuoco della polizia caddero 5 giovani. Il governo Tambroni si dimetterà, finalmente, dopo che la democrazia Cristiana ne decreterà la fine, il 19 luglio.

 

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E quelle dimissioni apriranno la strada al centro-sinistra, prima con la transizione fanfaniana, poi col primo governo Moro nel 1962. Sarà una nuova stagione, nella quale l'antifascismo tornerà ad assumere un ruolo costituente che la congiuntura precedente aveva tentato di rimuovere. Ma la vicenda ci dice quanto la confusione politica tenda carsicamente a riaffiorare nella nostra storia. E quanto difficile, e contrastato, sia stato il percorso della modernizzazione in questo Paese.

 

2 - LA GRANDE RIVOLTA IN NOME DELL'ANTIFASCISMO CHE CULMINERÀ CON IL '68

Mirella Serri per “la Stampa”

 

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«Mi trovai di fronte a persone che correvano Mi fermai senza capire più nulla, quando sulla strada passò un camion carico di carabinieri Mi giro e vedo un carabiniere che punta il moschetto su di me. Mi piegai in due. Sentii aumentare la confusione, portai la mano al petto e la ritirai piena di sangue». È in ospedale che lo scrittore Carlo Levi raccoglie la testimonianza del sedicenne Giuseppe Malleo, il quale, a Palermo, trapassato dalle pallottole della polizia nel luglio 1960, morirà dopo sei mesi.

 

Sono scoppiati i moti di protesta che come fuochi incontrollabili incendiano l'Italia e si oppongono al sostegno dato dal Msi (il partito che si richiama al fascismo) al governo Dc guidato da Tambroni. Sangue: da Genova a Torino a Reggio Emilia e Catania, scorre il sangue di chi vuole ostacolare l'entrata nelle istituzioni degli eredi di Mussolini. Furono molti i giovani che il regime del Duce non lo avevano conosciuto e che avvertivano la necessità di ribadire, insieme con i portuali di Genova, gli operai di Reggio Emilia e i manovali di Palermo, il fatto che l'Italia era un repubblica nata dall'antifascismo.

 

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La rivolta contro il governo Tambroni era divampata nella città della Lanterna ed era stata originata dalla decisione del Msi di tenere il suo congresso nella città medaglia d'oro della Resistenza. A dare voce a quello che stava accadendo si trovarono in prima linea anche gli scrittori e gli artisti, come Carlo Levi che nei bellissimi articoli per il settimanale «Abc» denunciò la repressione poliziesca e la passò liscia solo per caso: a Roma, in via Nazionale, i militanti neofascisti fecero esplodere l'auto da cui lo scrittore era appena sceso. La spinta antifascista nata nelle piazze insanguinate ispirò scritti e canzoni che, dopo anni di dimenticanza, fecero rivivere il ricordo della guerra civile.

 

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Nel 1957 era nato a Torino il gruppo Cantacronache, fondato da Fausto Amodei, Michele Straniero, Margot, Emilio Jona, Sergio Liberovici, a cui collaborarono letterati e poeti del calibro di Italo Calvino e Franco Fortini. A far da apripista alla canzone politica fu l'ispirazione un po' folle di Amodei che voleva dare una spallata al silenzio assordante che dalla fine della Seconda guerra mondiale circondava la Resistenza.

 

Per violare l'oblio nasceva Partigiano sconosciuto e Partigiani fratelli maggiori: «Se cerchiamo sui libri di storia, / se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d'aria / non troviamo la vostra memoria». Fondamentale al radicamento del ricordo antifascista con il suo impatto emotivo fu però il canto Per i morti di Reggio Emilia, composto da Amodei all'indomani degli incidenti di luglio, dove vennero uccisi cinque operai reggiani iscritti al Pci.

 

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Il motivo musicale evocava il ricordo dei fratelli Cervi e auspicava un congiungimento ideale tra le lotte dei partigiani e quelle degli scioperanti. I ragazzi ostili a Tambroni si ritrovavano nei fulminanti versi di Fortini per Patria mia o per la Canzone della marcia della pace, mentre Calvino, con Oltre il Ponte, segnalava l'urgenza di un messaggio partigiano per il futuro (nel 1963 pubblicava La giornata d'uno scrutatore).

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Carlo Cassola faceva uscire nel 1960 La ragazza di Bube, molto criticato anche se ispirato agli ideali della Resistenza. Ma anche Pier Paolo Pasolini, che denunciava la nascita di un «realismo minore», fu folgorato da quel terribile mese, accecato da «quella luce di Luglio / che assorbiva ogni lacrima, e negli occhi / lasciava soltanto posto alla speranza». Con i versi pasoliniani e le canzoni di Cantacronache iniziava quel lungo viaggio dei più giovani verso l'antifascismo che giungerà al culmine nel Sessantotto.

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