Eleonora Barbieri per “il Giornale”
«Cerca la pietra con il sole e la luna. Segui la stradina di sassolini chiari, finché finisce. Io sono lì, l'ultima della valle». La valle è la Val Nure, nel Piacentino; come l' accento di Gabriella Cella, che qui, sopra Bettola, ha il suo ashram. «È il luogo del ritiro, dove si fa yoga. Da trentatré anni sono qui. Ci sono arrivata per caso...». Anche se lei in effetti è nata poco lontano, a Borgonovo Val Tidone, nel 1944: «Sono una figlia della guerra, eravamo sfollati».
Famiglia proletaria, studi alla scuola d' arte di Piacenza, esordi fra dipinti e poesie, tanti mestieri, molte ore passate in fabbrica. Anni Sessanta, lo yoga in Italia è quasi sconosciuto. Gabriella Cella lo incontra a 25 anni e non si lasciano più: oggi lei è «la maestra» dello yoga in Italia; una maestra nota e riconosciuta a livello internazionale, visto che ha addirittura creato un metodo, lo Yoga Ratna (l' ultimo dei suoi numerosi libri si intitola proprio Alla scoperta dello Yoga Ratna ed è pubblicato da Bompiani; il primo, storico, Yoga e salute, uscì nel 1982).
Dicono che le persone si commuovano alle sue lezioni. «Eh, questo mi piace molto. Di recente è successo con un signore anziano». È un andare in profondità: «Il simbolo è già dentro di noi, solo che non ne siamo consapevoli. Attraverso lo Yoga Ratna lo possiamo portare in superficie: questa è la magia, anche se non c'è niente di magico».
Gabriella Cella si è dedicata soprattutto alle donne, e il suo metodo - lo insegna in una Scuola di formazione, che dura quattro anni - è pensato proprio per il corpo femminile: «Ho studiato medicina psicosomatica, mi sono interessata molto a Jung e al mondo simbolico, poi alle divinità induiste, soprattutto quelle femminili. Perché lo yoga è stato creato da maschi e, per millenni, è stato praticato solo da maschi. Così ho fatto molte ricerche sulle forme delle divinità femminili, su cui ho costruito le asana, le posizioni; poi le ho provate, per vedere se fossero adatte alle donne, e in quali periodi della loro vita». La treccia lunga, gli abiti immacolati, i piedi scalzi.
Gli occhi luminosi, mentre guarda sulla valle invasa di sole e folate che fanno tintinnare tutto, in veranda: «Si è scatenato Vayu, il dio del vento». «Sono quarantanove anni che insegno e pratico. Oggi faccio una pratica, anche piccola, ma costante, che mi spinge ad andare avanti a ricercare».
Ricerche che, negli anni, si sono basate su «i testi, la mia persona, i templi in India, le forme delle danze indiane». Poi i supporti di ginecologia, anatomia, fisiologia, psicologia. E la tradizione: «Mi baso sull' ortodossia, sulle asana: parto dal corpo. Poi, certo, le forme che uso di più le ho inventate io, provando e provando, non vengono dallo yoga classico. Vanno tenute per almeno cinque minuti ciascuna».
Per esempio: «Se hai bisogno di forza, prendi la sequenza di Durga. Basta anche un piccolo lavoro con le mani: io ci lavoro molto, non lo ha mai fatto nessuno. Ma sì, mi vanto un po'. Ho fatto tanta fatica ad avere un ego...». Il suo sorriso accennato, sereno, dice che niente è stato facile. «Sto scrivendo un libro sulla mia vita, che a volte è stata faticosa e difficile. Allora smetto, e poi dopo un po' riprendo».
All' inizio, all' epoca in cui faceva «tanti mestieri», si era ammalata: «Avevo dolori atroci alla testa, coliche. Non ne potevo più. Mi ero sposata a 19 anni, a 22 ho avuto mio figlio. A 25 ho iniziato a fare yoga: visto che sono molto indisciplinata ho pensato di trovare una disciplina. Sentii la parola dal mio capo, che cercò qualcosa di yoga in edicola».
La prima maestra era una ex ballerina classica: «Andavo da lei tutti i pomeriggi. Era un po' tremendina. Facevo bene il loto, o le posizioni sulla testa, allora lei diceva: Non lo fare.
La gente un po' scorbutica mi attira...Mi piace il diverso, infatti ho sposato un siriano. Il mio terzo marito. Eh, così è la vita. Se ne è andato quattro anni fa. Sparito».
L' insegnante, dice, era bellissima. Anche Gabriella Cella è bellissima: dal vivo, e nelle fotografie nei suoi libri, in cui è in posizioni a volte pazzesche. «Mi sono innamorata dello yoga, così ho iniziato a praticarlo seriamente. Mi alzavo alle 5, facevo una doccia fredda, due ore di yoga e alle 8 ero in fabbrica».
Paradosso: «Da piccola odiavo la ginnastica, mi feci esonerare. Ero rigidissima: ho plasmato il corpo attraverso lo yoga; tiravo, tiravo e non riuscivo, ma continuavo, adagio, ogni giorno, con pazienza, fino a fare posizioni incredibili». Voleva essere più flessibile, voleva guardare il mondo a testa in giù: «Lo yoga è ribellione: ti porta a sperimentare il contrario. Ed è autoanalisi».
Quella ragazza senza soldi, negli anni Settanta fa qualcosa di pionieristico: si licenzia dalla fabbrica e, con i soldi della liquidazione, fa il suo primo viaggio in India. Da sola. «Era il 1978. Un viaggio allucinante. Volevo andare a trovare lo swami Shankarananda, che avevo conosciuto a Milano, da Carlo Patrian. Ma quando arrivai all' ashram, a Rishikesh, lui non c' era. Era in Africa. Mi dissero che non potevo entrare, perché ero una donna. Lo yoga è una disciplina di maschi, fatta dall' uomo in funzione dell' uomo. Anche se oggi la praticano soprattutto le donne: perché le donne sanno guardarsi dentro».
Eppure lei, donna e occidentale, riesce a farsi ammettere alle lezioni: «Dovevo sempre dimostrare di essere all' altezza. Ero l' unica con trenta maschi, tutti figli di brahmini e di samurai. Se toccavi il loro cibo ti maledivano. Hanno fatto di tutto per farmi scappare». Il giorno della partenza - dopo 33 giorni scadeva il biglietto aereo - ottiene il diploma. Negli anni riceve riconoscimenti unici per una donna, come quello di «Yoga Chudamani» (preziosa gemma dello Yoga) a Kalady, in Kerala, e poi di «Yoga Charia» (che dedica la sua vita allo Yoga): «In Kerala il brahmino mi insegnò la puja, una preghiera che le donne non recitano. La ricordo ancora. E poi mi fece fare le ciabatte dei brahmani».
Quei viaggi in India sono proseguiti per trent' anni, «avanti e indietro». «Ero sempre pellegrina, andavo scalza, avevo rispetto. Ho girato tutto il Ladak a piedi e le montagne del Kashmir a cavallo. Sempre da sola. Senza bagaglio e senza macchina fotografica». La cosa più importante dello yoga, dice, è che «ci mette in condizione di guardarci dentro, e di capire di che cosa ha bisogno il nostro corpo».
Mentre la cosa più importante mentre si fa yoga è una sola: «Essere lì, presente, nel momento. Questo è fare yoga: non è sul tappetino, è nella vita quotidiana». Gabriella Cella ha insegnato ai bambini, fatto lezione in carcere, tenuto decine di seminari ma ogni volta che è andata in India ha ricominciato «da principiante»: «Ogni volta che torni indietro, riesci a capire di più. È molto difficile conoscere tutto del nostro corpo». Gabriella Cella, chi è un maestro? «Non so». Sorride. «A me piace molto insegnare, perché imparo».