Fabrizio Ottaviani per “il Giornale”
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Qualche anno fa, durante un viaggio in Marocco, mia moglie ebbe bisogno di un parrucchiere. Mal gliene incolse: si ritrovò sul capo un'acconciatura a forma di favo capovolto, nello stile degli anni Sessanta. È il fenomeno dello «sgocciolamento»: le mode sorte nelle capitali dell'impero New York, Parigi, Londra si diffondono dopo un mese nei capoluoghi di provincia, dopo un anno raggiungono cittadine di piccole dimensioni, dopo dieci i più remoti paesini di montagna per poi lanciarsi alla conquista del mondo, Marocco compreso.
Purtroppo certi «sgocciolamenti» sono meno fatui: secondo gli studiosi anglo-americani Helen Pluckrose e James Lindsay gli studi postcoloniali, la teoria queer, l'ossessione per la social justice, l'ideologia woke che impone di ribellarsi alla discriminazione e insomma l'intreccio di ricerche impegnate nell'emancipazione di alcune categorie di persone socialmente svantaggiate, intreccio il cui risvolto più chiassoso è l'ormai infestante cancel culture, sarebbero la conseguenza dell'importazione delle teorie dei filosofi francesi postmoderni, attivi in particolare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: Lyotard, Derrida, Baudrillard e naturalmente Foucault.
Formulate nel saggio ora tradotto dall'inglese La nuova intolleranza (Linkiesta Book, pagg. 384, euro 20; con una prefazione di Guido Vitiello), le tesi di Pluckrose e Linsday hanno sollevato numerose discussioni oltreoceano; per dare un'idea dell'eco suscitata, basta dire che su Amazon le loro opere hanno più recensioni dell'iPhone.
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Secondo gli autori, il postmodernismo è riassumibile in due principi e quattro temi. Il primo principio stabilisce che la verità oggettiva non esiste e che la conoscenza è una costruzione sociale; il secondo, che tale costruzione è gestita da chi detiene il potere. Negli studi postcoloniali inaugurati da Franz Fanon e resi universalmente noti dal celebre Orientalismo di Edward Said, per esempio, l'identità dei popoli colonizzati non è un dato di fatto, ma un'invenzione degli europei che ha lo scopo di mantenere inalterato il rapporto di dominio. La stessa argomentazione può essere impiegata per decostruire la cultura afroamericana, l'identità femminile o quella omosessuale.
I quattro temi riguardano l'offuscamento dei confini (nella teoria queer ad essere «offuscato» è il confine fra uomo e donna), il potere del linguaggio, il relativismo culturale e la perdita dell'individuale e dell'universale. Sgocciolando dalla Francia sulle università americane, ribattezzato con il nome distopico di «Theory», il postmodernismo avrebbe contaminato la società statunitense facendola uscire dal solco del liberalismo. Il volume, infatti, si basa sulla convinzione che il liberalismo persegua gli stessi obiettivi di giustizia sociale della cancel culture, ma in modo più proficuo e senza fanatismi.
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Nel capitolo finale si stila addirittura una sorta di prontuario casuistico grazie al quale il seguace di Stuart Mill e Tocqueville può rispondere a tono alle sollecitazioni della «Theory», ribadendo l'autonomia e l'efficacia dell'approccio liberale.
Si tratta di pagine stimolanti, ma che sollevano alcune perplessità. I «sei pilastri del postmoderno» rappresentano in realtà le più rilevanti acquisizioni filosofiche degli ultimi due secoli: si rintracciano facilmente nella «scuola del sospetto» e dunque in Nietzsche, nell'antropologia culturale e filosofica, nella tradizione ermeneutica prima e dopo Heidegger.
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La seconda questione è più spinosa. E se il dissidio fra liberalismo e postmodernismo fosse una lite domestica interna al liberalismo? John Locke (1632-1704) nel Secondo trattato sul governo pone le basi della società liberale, ma nel terzo libro dell'Essay delinea una teoria della conoscenza che oggi ci appare postmoderna; lo scetticismo, che gli autori attribuiscono al postmoderno, è stato un lievito del moderno; e si potrebbe continuare.
A questo punto, se si volesse premere il pedale dell'orgoglio europeo, si potrebbe osservare che da noi il liberalismo non è mai degenerato in cancel culture perché presidiato da una quantità di atteggiamenti, convinzioni e stili di vita (religione, arte, puro e semplice dolce far niente...) che ne attenuano il pragmatismo e l'individualismo. Infine: per scagionare il puritanesimo americano, di cui la «nuova intolleranza» è una manifestazione, gli autori agiscono in modo puritano, costruendo un oggetto persecutorio, la «Theory», che sarebbe nata lontano, sulle rive della Senna; dove però non ha mai torto un capello a nessuno, mentre loro si ritrovano in casa un'ideologia-manganello che costringe il cittadino americano a camminare sulle uova se non vuole perdere il lavoro, la famiglia e persino la libertà.
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