Testo di Norberto Fuentes pubblicato da la Repubblica
Il rifiuto dell’immagine come complemento dell’informazione e la sua preferenza per l’elaborazione cerebrale dei dati era l’unico tratto femminile individuabile nella personalità di Fidel Castro. Prova di una condotta arida, secca, e del convincimento di alcune delle persone più intime – non molte – che non fosse mai stato innamorato. Stabiliva una relazione simile tra il nudo femminile e la morte.
I video delle fucilazioni li guardava appena, e se li vedeva li faceva avanzare veloce per qualche secondo sul lettore della sala da pranzo di casa sua, quando riceveva la bobina la mattina successiva alle notti di fucilazione, collocata sul tavolo accanto a un riassunto dei cablogrammi internazionali più importanti, il comunicato quotidiano della Seguridad e la colazione. In situazioni di combattimento, quando sparava, e sparava sempre per uccidere, guardava il cadavere di traverso, il suo unico interesse era accertarsi che quell’«obbiettivo» non si rialzasse.
Per altro verso, aveva l’abitudine di cedere donne a fini nuziali a comandanti veterani della sua truppa, e successivamente dirigenti di primo piano, ed ebbe l’audacia di dire a uno dei capi della sua scorta – il tenente colonnello Juan Reinaldo Sánchez – che gli aveva rubato la donna. E si diceva che la sua performance tra le lenzuola fosse una delle peggiori d’Occidente, «un cazzo di imbranato», secondo il commento di una leggendaria modella cubana degli Anni ‘50, Norka. Le guardie del corpo erano appostate dietro le tende: poteva vedere gli stivali dietro i drappeggi.
Cosicché, quando riceve i rapporti, regolarmente mette da parte le fotografie e pretende che gli raccontino lo scenario, e ascolta con piacere. Cuba, come si può dedurre da tutto quello che si dice qui, è uno dei Paesi che dispone di più informazioni grafiche accumulate (e involontarie, come si deduce anche questo). Ma non è qualcosa che lui si proibisce di vedere, o che abbandona al sollazzo dei brutali contadini del suo entourage di sicurezza, perché di tanto in tanto si lascia andare alla tentazione. E non è che rifiuti – diciamo per ragioni morali o di principi – l’immagine pornografica, quanto si sente contrariato di fronte ai nudi, per artistici (e dunque rispettabili) che possano essere.
Carlos Aldana si lamentava con me che Fidel gli aveva ordinato di far togliere dalla programmazione l’opera teatrale El lobo, el bosque y el hombre nuevo di Senel Paz perché una delle attrici si produceva in una scena di nudo e perché Fidel gli aveva giurato – la forma di impegno più assoluta e definitiva – che finché fosse stato vivo non avrebbe permesso scene di nudo a Cuba.
Tutto questo sarebbe finito poco dopo, nel declino di quella sua vecchiaia, quando ordinò di far venire all’Avana personaggi di secondo piano come Alfredo Esquivel, el chino, o Max Lesnick, el polaco, che furono suoi compagni di università o dei suoi primi anni nel Partito ortodosso, o nelle bande degli anni 40, e che furono allontanati a Miami come nemici mortali agli inizi della Revolución e alla fine perdonati, per farsi raccontare i vecchi pettegolezzi di alcova di trent’anni prima, di altri ex compagni, amici o conoscenti. Il Fondatore del Primo Stato Socialista d’America che ascoltava le storie galanti di creature che ormai erano anziani, o addirittura defunti, divertendosi come può divertirsi solo un uomo che ha perso il contatto con il resto dell’umanità in un punto del tempo che ormai neppure lui sa dove fu.
Però, diciamo, questa è la parte oscura o discutibile della biografia di un uomo pubblico che per il resto è stato capace di mantenere nel più rigoroso ermetismo la propria vita intima, ermetismo violato occasionalmente solo dalle leggerezze di un carattere, a sua volta, vanitoso (un’altra caratteristica femminile?). E così dalle sue stesse labbra siamo venuti a sapere che perse la verginità a nove anni tra le braccia di una contadinella dei paraggi del latifondo paterno a Birán, nell’Oriente cubano. In seguito, adolescente, le visite del fine settimana a un postribolo grossolano della piantagione di canna da zucchero in compagnia del suo compare d’avventure, Baudilio Castellanos.
Gli studi all’Avana lo mantennero legato – era normale per i ragazzi cubani dell’epoca – a un’altra casa di tolleranza, anche se un tantino più raffinata. Andava sempre nello stesso posto. Si trovava in calle Maloja, al numero 853, primo piano, e si chiamava la casa di Juanita. L’edificio esiste ancora, anche se non è catalogato tra i pezzi musealizzabili della Revolución.
Era un postribolo sui generis, perché aveva solo due donne: Juanita stessa, che era la padrona di casa, e una bionda dagli occhi verdi che si chiamava Berta. Certo, Berta poteva essere un nome d’arte, perché era un uso diffuso tra le prostitute, per proteggersi. Soprattutto era una forma che avevano per proiettarsi verso il futuro. Era la loro massima abilità: dal momento che nessuno sa cosa ti può riservare la vita, dicevano, nessuno potrà identificarmi un domani. E Fidel andava a letto soltanto con Berta. Costava quattro o cinque pesos. Ed erano tanti soldi se considerate che a una ventina di isolati da lì, nel quartiere di Colón, una donna valeva un peso.
Il rango sociale comincerà a elevarsi considerevolmente verso la fine dei suoi studi di avvocato e l’inizio della sua passione per la politica. Stiamo parlando di fine anni 40 e inizio anni 50. Prima il suo matrimonio con un’angelica studentessa di filosofia di nome Mirta Díaz Balart. È lei che deve sopportare la notizia, con il loro primo figlio tra le braccia, Fidelito, che suo marito ha appena preso d’assalto una caserma dell’esercito a Santiago de Cuba.
Successivamente, in galera, sarà Fidel che dovrà sopportare la notizia che sua moglie riceveva una sinecura dal governo di Batista. Fidel era convinto che «il nostro matrimonio avrebbe potuto reggere senza quel denaro». Un amico della coppia, l’avvocato Aramís Taboada, accettò di rappresentare Mirta nella causa di divorzio. Ma un altro amico, “el chino”, raccomandò fino allo sfinimento ad Aramís che «non si immischiasse». Non era elegante rappresentare una delle parti in causa quando l’altra parte era un vecchio amico.
L’amicizia deve pur contare qualcosa, diceva. E questa fu una delle disgrazie, a detta del “chino”, che avrebbe contemplato quel divorzio come una tragedia di trascendenza nazionale, data la dimensione che ha avuto successivamente Fidel nella vita del Paese, e questo si è visto riflesso in certe rudezze e durezze di Fidel all’ora di governare.
Subito, dal carcere, cercò di ricostruire con un’altra donna le sue aspirazioni amorose. Naty Revuelta, la moglie di un facoltoso medico che Fidel aveva conosciuto nella sede del Partito ortodosso, fu l’oggetto delle sue attenzioni. Fidel, secondo quanto ha detto lui stesso, all’epoca non sapeva che «nessun amore è uguale a un altro», e che la chimica gioca un gran ruolo, e che ci sono (come ha detto sempre lui, anche in interviste) tanti amori quante chimiche.
Cominciò a sperimentare con Naty alcune lettere di retorica forzata, in cui arrivò a dire che «certe cose sono eterne e non possono essere cancellate, come i miei ricordi di te, che mi accompagneranno fino alla tomba»; o altre, certamente migliorate: «Mi sento come quando lessi I miserabili di Victor Hugo, vorrei che durasse per sempre» (la lettura, si intende).
Il carcere, tuttavia, non fu eterno, e Naty non ebbe l’audacia di accettare la proposta di Fidel di sposarlo (condotta che si sarebbe rimproverata per il resto della sua vita, soprattutto quando Fidel si convertì nel capo di una rivoluzione vittoriosa). Quello fu il processo in cui le donne si elargirono a Fidel in quantità così ingenti che qualcuno arriva a contarle in migliaia.
La partenza tuttavia fu assai più modesta, durante la campagna sulla Sierra Maestra, quando si procurò la compagnia di una magrolina e poco aggraziata Celia Sánchez. Al di là dell’harem galleggiante in cui si trasformò, di fatto, il Paese, non ci fu nessun altro nome di donna accettato ufficialmente dal regime fino all’apparizione di Dalia Soto del Valle, la maestra che conobbe in una stradina di Trinidad nell’autunno del 1961, e che si sforzò di nascondere a Celia fino alla sua dipartita, diciannove anni di sotterfugi e sussulti.
Ma Fidel aveva messo sull’avviso Dalia fin dall’inizio. «Non potrò sposarmi con te finché Celia sarà in vita. Perché lei e io siamo un simbolo». Un argomento simile lo adoperò con Aleida March, la donna del Che, quando le uccisero il marito in Bolivia: «Fai quello che credi, ma non sposarti. Sii discreta. Perché il Che è un simbolo». Sempre il servizio alla Revolución al di sopra di tutte le emozioni e di qualunque impulso della carne.
FIDEL CASTRO NATY REVUELTA FIDEL CASTRO
( traduzione di Fabio Galimberti)