Sergio Rizzo per “la Repubblica”
Ripete sempre in privato Domenico Arcuri, uno dei funzionari pubblici in prima linea nella lotta alla pandemia: «In questa emergenza stiamo scoprendo che gli italiani sono forse migliori dell' Italia». Ha ragione da vendere. Si temeva il 4 maggio come un devastante tana-libera-tutti: e invece il senso di responsabilità dei cittadini, pure stremati da due mesi di segregazione forzata, ha prevalso pressoché dappertutto.
Lo stesso senso di responsabilità sarebbe ora lecito attendersi da chi amministra, vale a dire chi rappresenta e dovrebbe mandare avanti l' Italia: le persone e gli apparati cui gli italiani hanno affidato la gestione di uno dei passaggi più drammatici della storia repubblicana, e che dovrebbero garantire una ripartenza sicura e ordinata. Per tutti.
Questo giornale ha già dato conto degli ostacoli che perfino in questo frangente si materializzano grazie a certe ottusità purtroppo insuperabili della burocrazia. Tanto inflessibile e maniacale nel regolamentare ogni aspetto della vita sociale ed economica appigliandosi a commi, circolari e cavilli, quanto incapace di garantire le più elementari certezze per i cittadini. Ciò che sta accadendo mentre il Paese in ginocchio cerca di ripartire è lo specchio di tale contraddizione.
Clamoroso il caso documentato oggi in queste pagine, dove si ricostruisce l' intera filiera delle mascherine arrivando alla conclusione che pagarle 50 centesimi resta ancora più che altro una meravigliosa speranza. Eppure su quei 50 centesimi ci ha messo la faccia il commissario per l' emergenza coronavirus Domenico Arcuri, nientemeno.
Le cause? Innumerevoli: chi denuncia carenze produttive, chi ha i magazzini pieni di mascherine pagate il doppio e non può venderle alla metà, chi fa semplicemente il furbo. Il succo è che siamo obbligati per decreto a indossare sempre la mascherina, ma lo Stato che giustamente ci obbliga a portarle non è in grado di garantire il prezzo promesso dal medesimo stato. Almeno per ora: poi si vedrà.
Vero è che in determinate circostanze pure la speculazione si mette in moto. E sempre su queste pagine si racconta anche come i prezzi di certi generi alimentari siano andati alle stelle mentre la povertà dilaga. È la legge della domanda e dell' offerta, precisano gli autori dei rincari. La conosciamo. Ma sappiamo pure che lo Stato può e deve intervenire per limitare i danni che in situazioni di emergenza colpiscono sempre gli strati più fragili della popolazione. Così succede per le imprese.
Soprattutto le più piccole, che però sono una parte essenziale dell' architrave economica del Paese. E sono nei guai seri con la cassa integrazione che non arriva. Per quelle sotto i 5 dipendenti ci sarebbe la cosiddetta cassa in deroga, ma anche lì c' è un inghippo burocratico, cioè l' autorizzazione deve darla la Regione ma a pagare è l' Inps. Con una procedura rimasta pre-coronavirus che prevede ben 5 (cinque) passaggi: dalla Regione all' Inps centrale, dall' Inps centrale all' Inps territoriale, dall' Inps territoriale all' azienda, dall' azienda nuovamente all' Inps e finalmente dall' Inps i soldi al lavoratore.
Ragion per cui hanno preso i soldi finora 68 mila persone su circa 700 mila domande. Il dieci per cento. E si possono perfino leccare i baffi rispetto alle imprese poco più grandi, quelle che hanno oltre 5 dipendenti e se la devono vedere soltanto con l' Inps, dove c' è per loro uno strumento apposito: il fondo per l' integrazione salariale. Il fatto è che fino all' epidemia arrivavano pochissime domande e la struttura per liquidarle era in proporzione. Ora però quel fondo è stato sommerso di richieste, con il risultato che i soldi escono con il contagocce. Basta dire che su 1,4 milioni di lavoratori hanno avuto l' assegno finora appena in 17 mila: poco più dell' uno per cento. Così non si riparte di sicuro. Al massimo, si gira a vuoto nel parcheggio.