Gianluigi Nuzzi per “la Stampa”
«Gli italiani celano i soldi delle offerte in tanti cassetti nascosti, noi dobbiamo trovarli. Subito». Eravamo nel novembre del 2014, a Santa Marta, Francesco rileggeva il resoconto riservato dei fondi paralleli finora trovati: 600 milioni di euro mimetizzati tra depositi, fondi, fondazioni, riserve non contabilizzate.
PAPA BERGOGLIO NELLA SALA DEL CONCISTORO CON I VESCOVI
Un magma nero di potere e denaro, dilatatosi all’ombra di san Pietro dai tempi di Paolo VI, fortificatosi con Wojtyla prima e ancor più con Ratzinger poi. Bergoglio non si sorprese né scompose. Ne aveva già viste tante in Argentina. Da cardinale a capo dei gesuiti accertò che metà dei loro depositi in banca erano investiti nientemeno che in aziende produttrici di armi E questo lo aveva raccontato ai signori della curia, a chi in questo magma nero affondava mani predatorie o vizi inconfessabili.
Già nel primo incontro, in sala Bologna il 3 luglio 2013 Francesco chiese fatture e appalti trasparenti a degli attoniti monsignori e cardinali dall’anello d’oro lucido, lucidissimo. Rimasero senza parole a sentir un papa parlare di denaro e trasparenza, il primo era affar loro, il secondo era una parola utile al massimo per qualche titolo rincuorante sui giornali. Insomma, non gli credettero. Alcuni di loro, ritenevano di impagliare la sua riforma, svuotare tutti i nuovi organismi creati per dare nuova luce alle finanze, impallinare i delfini che lo avrebbero sostenuto.
Ma sbagliavano. Il gesuita è lento ma inesorabile. Prima ha tracciato i confini di queste strutture parallele, individuando ruoli e responsabilità. E allontanando da subito figure controverse, come quel monsignor Jessica che in pochi giorni sparì dal balcone di piazza san Pietro, dove dai tempi di Giovanni Paolo II era solito assistere il pontefice di turno. O Paolo Mennini, incredibilmente figlio del braccio destro di Paul Casimir Marcinkus e che ancora occupava ruoli di rilievo nella banca centrale.
Al tempo stesso ha avviato le riforme, iniziato a colpire le seconde file delle strutture curiali più compromesse e poi sempre più su fino all’allontanamento del numero uno dell’Apsa, (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica) la banca centrale, il plenipotenziario Domenico Calcagno, soprannominato cardinale Rambo per l’arsenale di armi - anche da guerra - che amava collezionare. I tempi sono lenti, lentissimi, biblici appunto ma quello che si assiste oggi è l’ultima puntata di una guerra sotterranea, lontana dai riflettori dei media e che coagula particolarità senza precedenti.
Bergoglio dopo aver utilizzato strumenti convenzionali (allontanamenti, ridimensionamenti), passa a quelli più incisivi. Infatti è la prima volta che in Vaticano si arresta qualcuno per reati finanziari. Il precedente è Marcinkus per il crac dell’Ambrosiano di Calvi ma era la magistratura milanese a chiedere l’arresto che venne invalidato. È un segno importante di autonomia e di progressivo allineamento della giustizia del piccolo Stato – invero finora abbastanza narcolettica – al volere di Bergoglio. Grazie all’innesto di figure nuove – come il magistrato Giuseppe Pignatone, il generale Saverio Capolupo – e al progressivo miglioramento delle competenze della gendarmeria.
L’emersione nell’inchiesta di figure come monsignor Alberto Perlasca indicano ancora la profondità di questa inchiesta che va a colpire nel cuore del piccolo Stato figure non note al grande pubblico ma di elevato potere. Perlasca è di certo uno di questi. Nato a Como nel 1960, due lauree, è stato protagonista di un’ascesa incredibile da Delebio, piccolo paese arroccato con tremila anime in provincia di Sondrio, al terzo istituto di credito del Vaticano. Sì perché non tutti forse sanno che oltre allo Ior degli scandali e all’Apsa del cardinale Rambo, c’è appunto un’altra sorta di banca in segreteria di Stato.
Ed è questo forse lo snodo nevralgico di tutta la rete di potere, di quel magma nero che produceva fino a 600 milioni di fondi fuori la contabilità ordinaria. Perlasca dal 2009 è l’indiscusso capo della sezione amministrativa della segreteria di Stato. È nella sua memoria la ragnatela di conti, depositi, fondi d’investimento, operazioni immobiliari. È lui che si prende come collaboratore quel cavaliere Fabrizio Tirabassi che oggi troviamo negli atti del promotore di giustizia.
Ma è lui soprattutto che gestisce l’Obolo di san Pietro, la più poderosa raccolta di denaro in contanti che avviene una volta l’anno in ogni angolo del mondo. Soldi raccolti per le opere di bene del Papa – almeno così si incentiva la donazione – ma che vede ormai il 90% di questi finire a sanare i conti in rosso della curia romana. Non è quindi solo una storia di compravendite di palazzi a Londra, di ipotizzate estorsioni, stecche e truffe. Prova ne è della chiamata in causa del cardinale Angelo Becciu, una delle menti politiche più attente oltre le mura.
Sardo di Pattada, il paese famoso in tutto il mondo per gli affilati coltelli, Becciu oggi si occupa di santi e beati ma nell’era Ratzinger faceva parte del triumvirato Bertone-Becciu-Balestrero che avevano il controllo assoluto dello stato. Bertone è chiuso nel suo attico. Balestrero si sta difendendo da un’accusa di riciclaggio internazionale.
Rimane Becciu che in queste ore di tensione pone i dovuti e attesi distinguo per sfilarsi da un’inchiesta, che, seppur non lo vede indagato, rischia di metterlo fuori gioco per sempre. È l’ultimo atto di una guerra che si consuma dentro e fuori il Vaticano. Perché il Papa è ben consapevole della tenaglia che stanno mettendo in atto gli ambienti più conservatori americani.