E CHE DIAZ! - LA VERITA’ DEL COMANDANTE CANTERINI: “UN BLITZ STUDIATO PER LA STAMPA, CI DICEVANO CHE DENTRO LA SCUOLA C’ERANO TERRORISTI. INVANO PROPOSI DI FAR USCIRE GLI OCCUPANTI CON I LACRIMOGENI MA VOLLERO UNA COSA PLATEALE E L’ORGANIZZAZIONE FU UN DISASTRO…”

Dal libro di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo «Diaz, dalla gloria alla gogna del G8 di Genova» - “Quella notte a comandare erano nessuno e centomila, e la magistratura ha approfittato della guerra interna alla polizia per condannare. Eravamo fratelli, siamo diventati caino e abele”…

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Genova G8 Genova G8 VINCENZO CANTERINI VINCENZO CANTERINI

Quello che segue è il racconto di quella notte del 21 luglio 2001 a Genova. A ripercorrere quei tragici momenti è l’ex capo del VII Nucleo Sperimentale del Primo Reparto Mobile, Vincenzo Canterini, nel libro di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo «Diaz, dalla gloria alla gogna del G8 di Genova», Imprimatur Editore.

 

(...) Capita l’antifona, annusata l’aria malsana, Canterini cede su tutta la linea. La sua strategia alternativa va a farsi benedire. Niente planimetria, niente carabinieri a far da cordone sanitario alla scuola per non far entrare e uscire nessuno. Soprattutto niente lacrimogeni. Gli ordini sono ordini, non si discutono, e questa regola elementare il comandante l’aveva disattesa pubblicamente sfidando il capo attraverso i suoi emissari.

bolzaneto sequenza g8 genova bolzaneto sequenza g8 genova

 

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«Si deve andare, ora e subito. Per l’ennesima volta viene ribadito quel mero sospetto spacciato per anticamera di verità: la Diaz è piena di terroristi, stracolma di armi (...). Fu un’immagine altamente scenografica. Sembrava studiata per la stampa, che infatti era già lì, prima di noi, allertata da qualche stratega della comunicazione. Sarebbero bastate un paio di tronchesi, ma vuoi mettere l’irruzione plateale e rumorosa? (...).

 

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Aspettai che entrassero i primi cinquanta-sessanta uomini che si occuparono di sfondare un’altra coppia di ante sbarrate e dopo, ma soltanto dopo, quando il flusso d’entrata stava ormai scemando, varcai l’entrata con indosso un casco (...). Alcuni ragazzi del Settimo Nucleo mi avevano aspettato e scortato con i loro scudi, sui quali avevo sentito infrangersi massi e bottiglioni. Un casino infernale. Gli anfibi degli agenti rimbombavano sordi inciampando sui contusi e slittando sopra vetri rotti, vestiti strappati, pozzanghere di sangue.

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Giuro, erano pozzanghere. Dietro la porta che dava sulla palestra notai i primi feriti, piangevano accasciati contro la parete. Urla disumane, terrificanti, sembravano provenire dall’aldilà. Vidi gente calpestata dalle scarpe dei poliziotti. Presi la via delle scale facendo lo slalom tra panche rovesciate e gli ultimi agenti che mi sorpassavano mentre salivo (...) La mia vita andò in testacoda.

 

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Mi bloccai appena mi si presentò davanti agli occhi lo scannatoio al primo piano. Inizialmente pensai a un campo di battaglia dovuto a violente resistenze. Perché resistenze, checché se ne dica, a cominciare dalle cancellate sprangate e dagli oggetti lanciati dalla finestre, ve ne furono molte tra gli occupanti. Gli abusi dei rappresentanti dello Stato ci furono e furono ingiustificabili. Ma alla Diaz non fu tutto bianco e nero, i manifestanti non erano tutti buoni e i poliziotti non erano tutti cattivi. I miei capisquadra, per dire, raccontarono di scontri cruenti.

Le relazioni e i referti al pronto soccorso parlavano chiaro. Molti componenti del Settimo erano stati fatti oggetto di aggressioni e lanci di oggetti non appena avevano varcato l’uscio della scuola (...).

 

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Ma i veri demoni, quelli che hanno approfittato dell’impunità dopo aver goduto a percuotere anziani claudicanti e ragazze nei sacchi a pelo, erano vestiti in jeans e maglietta con il fratino "polizia". Erano quelli che indossavano la divisa "atlantica", i caschi lucidi e i cinturoni bianchi (i nostri caschi U-Boot erano invece opachi, i cinturoni neri). Erano anche gli appartenenti, così si diceva nell’ambiente, a un misterioso gruppo operativo speciale ribattezzato Gos (...).

 

 

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Salendo le scale sentii un grido potente, categorico: "Ora basta! Basta! Tutti fuori". Feci qualche passo in più e trovai uno dei miei, inginocchiato e senza casco, che soccorreva come poteva una ragazza rannicchiata su se stessa. Aveva i capelli rasati, le trecce sulla nuca, il cranio fracassato da cui fuoriusciva sangue a fiotti e materia cerebrale. Il poliziotto che aveva dato lo stop alla mattanza e che vegliava sulla moribonda aspettando l’ambulanza era Michelangelo Fournier. Rimasi ipnotizzato da quella scena straziante, che mi fece pensare al Cristo sofferente tra le braccia delle Vergine. Sembrava la versione moderna della Pietà di Michelangelo. Era la pietà di Michelangelo Fournier (...).

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Tutt’attorno sentivo risuonare lamenti e gemiti spettrali, ma davvero non riuscivo a non distogliere la vista da quella ragazza che lottava con la morte aiutata da un ragazzo che nella vita aveva come missione di servire e difendere lo Stato (...). Pensavo esclusivamente alla giovane e quando scoprimmo che quei pezzettini di carne sparpagliati sul pavimento non provenivano dalla sua testa ma dalla cena che quella disgraziata doveva aver vomitato per le percosse, tirammo un sospiro di sollievo (...).

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Fuori, nel cortile ritrovai l’assembramento di forze che aveva partecipato alla perquisizione e che lasciò quel camposanto di manganellati molto tempo oltre i quattro minuti di permanenza del Settimo nucleo. Venni a sapere poi che nella concitazione al primo piano Fournier aveva preso di petto un grasso collega impegnato a simulare un coito su una ragazza carponi, e aveva inveito contro altri quattro agenti. Non era stato il solo a ritrovarsi a sottrarre i feriti dalla furia bestiale di gente pagata per difendere lo Stato. (...).

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Quella notte a comandare erano tutti, nessuno e centomila. Dalle riunioni in questura ai capannelli nella Diaz ognuno diceva la sua e anche la magistratura, alla fine, ci ha capito poco. Ogni tanto arrivavano ordini che non si sapeva da dove provenissero (...). In quel caos epocale mi ritrovai, di fatto, a coordinare i soccorsi. Oltre che paradossale non fu facile, perché mentre i fermati venivano agevolmente caricati sui cellulari, i feriti rischiavano di rimanere nei cortili parecchio tempo ancora. Le ambulanze, allertate in gran numero, ancora non arrivavano (...).

 

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Quella fu la prova che nessuno fra i responsabili dell’operazione aveva capito il significato della «messa in sicurezza» dell’area. Prevedere e poi provvedere, non rincorrere. Occorreva organizzare i mezzi di soccorso, chiudere le strade, "sterilizzare" eventuali vie di fuga che, infatti, ai primi sentori del blitz, vennero percorse da un nutrito gruppo di incappucciati visti scappare dalla Diaz da alcuni condomini dei palazzi circostanti, lesti a chiamare il 113 (...).

vincenzo canterini condannato per i tragici fatti della caserma Diaz vincenzo canterini condannato per i tragici fatti della caserma Diaz

 

"Comandante sia chiaro, io con questi non ci lavoro più", mi gridò Fournier. Questi non erano i cloni alle sue spalle. Per Michelangelo erano i giustizieri con casco e sfollagente che finalmente si mostravano sazi, dalla parte opposta, dopo una giornata passata a digiunare. Sorridevano complici anche quando Fournier sembrava sfidarli con gli occhi accecati dalla rabbia (...).

 

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Nelle intenzioni di chi aveva pensato fosse il male minore sacrificare i figli scomodi della Celere per salvare la grande famiglia della polizia di Stato, quel pattume passato in giudicato non era nei programmi. La raccolta dei rifiuti doveva essere differenziata: i macellai di Canterini di qua, tutto il resto, assolto, di là. Non avevano fatto i conti con una magistratura che procedeva senza guardare in faccia a nessuno e se ne approfittava delle striscianti liti in famiglia. Per lei non esistevano figli e figliastri.

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Senza star troppo dietro alle responsabilità penali, che erano e dovevano essere personali, alla fine ha indagato e mandato a processo tutti: il capofamiglia, i figli di buona donna, qualche figliol prodigo e i troppi figli di un Dio minore. Prima eravamo fratelli di sangue, dopo la Diaz come Caino e Abele».

 

 

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