LA CINA CAPITAL-COMUNISTA STA IMPARANDO LE PAROLE “TERRORISMO” E “POVERTÀ”: DOPO L’ATTACCO A TIENANMEN, ALTRE ESPLOSIONI CONTRO IL REGIME

Dopo l’attentato di matrice islamica a piazza Tienanmen, altre otto esplosioni nello Shanxi hanno mandato un messaggino a Xi Jinping - Nel fine settimana, nel luogo dell’attentato, si era svolta la manifestazione di 200 lavoratori licenziati, dispersi con la forza - Non è esclusa una vendetta contro i soprusi dei dirigenti rossi…

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1 - CINA: ATTENTATO TIANANMEN VENDETTA CONTRO DISTRUZIONE MOSCHEA
(ANSA) - Ci sarebbe il desiderio di vendetta contro la violenta incursione di poliziotti cinesi in una moschea dietro l'attentato che la settimana scorsa è avvenuto a piazza Tiananmen. Secondo quanto ha detto a Radio Free Asia un ex capo villaggio di Aymaq, nella provincia dello Xinjiang, Usmen Hesen, l'attentatore di Tiananmen, che proveniva proprio da quel villaggio, più volte avrebbe annunciato azioni di protesta a causa del raid.

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L'uomo, il 28 ottobre scorso, si è lanciato in auto, a bordo della quale c'erano anche sua moglie e sua madre, sotto il ritratto di Mao nella più famosa piazza di Pechino, uccidendo anche altre due persone. Giusto un anno prima, il 28 ottobre 2012, la polizia cinese aveva fatto irruzione nella moschea Pilal distruggendone il cortile, alla ricerca di presunti "terroristi" fra le file della minoranza islamica cinese degli uiguri. Hesen, secondo il racconto dell'ex capo villaggio, si distinse poi nella raccolta di fondi per ricostruire la moschea, tenendo anche discorsi pubblici e giurando "vendetta".

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2 - CINA, ATTENTATO CONTRO IL PARTITO TERRORE PRIMA DEL COMITATO CENTRALE
Giampaolo Visetti per "la Repubblica"


Altre «otto piccole esplosioni», nello Shanxi, hanno suonato ieri l'inquietante sigla inaugurale del Terzo Plenum del partito comunista, il più teso degli ultimi venticinque anni, al via sabato a Pechino. Mentre il presidente Xi Jinping, al potere da un anno, è chiamato a chiarire come sarà la Cina nel prossimo decennio, un nuovo attentato ha rivelato come nel Paese il livello di tensione sociale sia al massimo dal 1989 e come il sistema di sicurezza tradisca anomale fragilità.

A Taiyuan, poco prima delle 8, una serie di «bombe artigianali» è scoppiata vicino alla sede regionale del partito. Gli scoppi, secondo i media di Stato, hanno causato un morto e otto feriti, di cui uno grave. Decine le auto danneggiate da biglie d'acciaio inserite negli ordigni, azionati da circuiti elettronici.

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Una persona sarebbe stata fermata, ma resta il mistero su autori, ragioni e obbiettivi dell'attacco. Secondo testimoni, che hanno diffuso sul web alcune immagini scattate dopo le esplosioni, solo il caso ha risparmiato alla nazione una strage che avrebbe potuto scatenare reazioni imprevedibili.

Nel fine settimana, nella via che conduce agli uffici dei funzionari del partito, luogo dell'attentato, si era svolta la manifestazione di duecento lavoratori licenziati, dispersi con la forza. Non è esclusa una vendetta locale contro i soprusi dei dirigenti rossi, ma il risalto riservato dall'informazione governativa accredita l'inedito nervosismo che trapela dalla nuova leadership.

Il 28 ottobre un'auto con a bordo tre terroristi kamikaze è esplosa davanti all'ingresso
della Città proibita, in piazza Tienanmen. Nonostante arresti e rappresaglie contro la minoranza degli uiguri dello Xinjiang, il governo non è ancora riuscito a chiarire i fatti. Per i cinesi, dopo la repressione dell'89, una vigilia del comitato centrale comunista scandita da proteste tanto spettacolari e fuori controllo, è una novità che desta grande attenzione. Impossibile non collegarle a un Plenum che proprio il partito, con un'enfasi strana, ha caricato della missione storica di «riformare il sistema di sviluppo e cambiare il volto della Cina».

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Mentre la nazione soffoca per l'inquinamento, il potere è ostaggio della corruzione e l'urbanizzazione obbligata è frenata da costi insostenibili, il riformatore Xi Jinping ha finora rivelato solo il suo inatteso profilo di restauratore dei metodi repressivi maoisti. Dopo la condanna all'ergastolo del leader neo-maoista Bo Xilai, al posto delle annunciate riforme e aperture, la nazione ha assistito al ritorno di autocritiche e gogna pubblica, all'inasprimento della censura, a una guerra alla corruzione che sconfina nella resa dei conti interna al potere e al recupero di una retorica da Rivoluzione culturale.

Gli esegeti del partito assicurano che blandire politicamente la sinistra, a partire dal culto di Mao, sia necessario per avere la forza di varare riforme economiche di destra, ossia liberiste. Tra sabato e martedì 12 novembre si saprà se "l'americano" Xi Jinping, che ha adottato gli slogan del «sogno cinese » e della «linea di massa», si è adeguato ai metodi dei predecessori.

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Contro di lui, gli enormi interessi di funzionari e capitalisti di Stato che si oppongono a multinazionali straniere e piccole e medie imprese nazionali. Un confronto drammatico da cui dipendono, oltre al destino di Xi e del partito, la stabilità della Cina e la ripresa globale: le nuove esplosioni di ieri nello Shanxi, se non un avvertimento, sono un presagio che non inducono all'ottimismo.

 

 

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