Luca Beatrice per linkiesta.it
Fino a domenica a Torino è di scena Artissima, con il consueto contorno di fiere e fierette complementari e alternative, gallerie aperte il sabato notte, mostre nei musei, inaugurazioni, feste popolari ed esclusive, più il Club to Club per ballare fino alle 2.30 notte. Dopo Miart in settembre e Art Verona in ottobre, aspettando Arte Fiera a Bologna il prossimo gennaio e con l’aggiunta a sorpresa della nuovissima Arte in nuvola programmata a Roma tra il 18 e il 21 novembre, il sistema dell’arte italiana riparte esattamente come prima, fugando o almeno pare i dubbi già emersi nell’era pre-Covid.
Innanzitutto che l’offerta superi di gran lunga la domanda e questo meccanismo a tratti ipertrofico, certamente ripetitivo, risulti ormai obsoleto. Giusto in parte sospendere il giudizio critico e godersi il momento, tanta era la voglia di ritornare a vivere “normalmente”: per fare le pulci verrà il tempo.
Vale però anche la seguente obiezione: se non si è colta ora l’occasione di cambiare in profondità, vuol dire proprio che il sistema arte è davvero conservatore – il che sembra una contraddizione in termini, parlando di contemporaneo – che le abitudini sono dure a morire, che di sperimentare in pochi si prendono il rischio. Tanto vale ripristinare ciò che c’era prima, anche se incrinato e prevedibile.
Come sta dunque l’arte in Italia oggi? Si direbbe bene, a giudicare da questa ripartenza flash delle fiere che non trova corrispondenza nei movimenti di mercato, nel giro d’affari, nel cambio generazionale dei collezionisti.
Andiamo oltre e parliamo di mostre. Prima del Covid si definivano con il termine onestamente desueto di “blockbuster” le rassegne improntate sui nomi facili per un pubblico di bocca buona, snobbate anche pregiudizialmente dagli addetti ai lavori che ne hanno sempre contestato la scientificità e l’illusorietà della classica formula da…a (da Caravaggio a Van Gogh, da Picasso a Warhol) che promette ma non mantiene.
Operazioni costose, ci voleva un partner economico o un produttore di professione a sostenere una buona parte delle spese, e dunque il primo obiettivo era raggiungere in fretta il cosiddetto “break even” per cominciare a guadagnare. Si pensava che la coda pandemica avrebbe dimezzato le grandi mostre, i grandi eventi e invece operatori e amministratori, soprattutto i nuovi, spingono per rivedere le code davanti ai musei come segno di ritrovata fiducia nella cultura.
50mila visitatori in un mese fanno della mostra di Jeff Koons a Palazzo Strozzi una delle più visitate in Italia e per una volta non c’è niente da obiettare sulla qualità: bella, pensata, ben curata, ben allestita. Arturo Galansino è arrivato a Firenze per dimostrare che nella città degli Uffizi ci poteva stare anche il contemporaneo. Ha messo sul tavolo i top internazionali – Marina Abramovic, Ai Weiwei, JR, appunto Koons – e li ha portati a Strozzi. Quando si parla di manager culturale in Italia ora si pensa a lui perché unisce la preparazione del critico-curatore alla concretezza e al pragmatismo del businessman.
La sua figura oggi detta la linea e in molti vorrebbero direttori come lui. Però il mondo dell’arte non si limita ai centri storici delle città ad alta affluenza turistica, molti musei sono decentrati e non hanno mai assorbito significativi flussi di pubblico. Costano tanto e incassano poco, ma questo si sapeva fin dall’inizio. Con fare illusorio e nascondendosi dietro un dito la politica ha piazzato nei cda dei musei presidenti con un preciso mandato: portare gente, ridurre i costi e incassare. Preoccupazione di produrre cultura, nessuna.
Meno ne sanno e più insistono con questa litania, convinti di avere la soluzione per un problema che si trascina da anni. Non percependo emolumenti vogliono l’ultima e in certi casi unica parola sulla programmazione espositiva. Al Mart di Rovereto Vittorio Sgarbi ha eliminato la figura del direttore. Basta lui a curare le mostre che infatti decide e firma. Fatto recente, al Centro Pecci la direttrice Cristiana Perrella è stata licenziata dal presidente Lorenzo Bini Smaghi pochi mesi dopo il rinnovo del contratto triennale per evidenti divergenze sull’identità del museo, e caso analogo capitò anni fa con Fabio Cavallucci cacciato dopo l’inaugurazione.
(Mi limito a riportare la cronaca senza commenti, visto il rapporto molto stretto con la Perrella, mia prima ex moglie nonché madre della mia prima figlia. Non sarebbe corretto altrimenti, però mi tocca l’obbligo di citare la petizione che gira online solidale con l’ex direttrice già firmata da oltre 100 nomi di peso dell’arte e tra questi Achille Bonito Oliva, Francesco Vezzoli, Tomaso Montanari, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo)
Altra polemica delle ultime settimane, l’incarico di direttore artistico della Quadriennale di Roma conferito a Gian Maria Tosatti, che di mestiere fa l’artista, non il critico e neanche il curatore. Suona magari strano ma non ci sarebbe molto di male, anzi è certificato dalla storia visto che sotto il regime fascista il ruolo di segretario generale fu affidato al pittore figurativo Cipriano Efisio Oppo.
Non è piaciuto, piuttosto, che lo stesso Tosatti sia il solo artista a rappresentare l’Italia al Padiglione nazionale nell’imminente Biennale di Venezia. Una coincidenza astrale perfetta, chi avrebbe potuto disegnarla meglio, che suona tanto da uomo solo al comando. Anche qui gira una petizione ma questa volta contraria e piuttosto sindacalizzata, indice comunque di una certa contrarietà. Persino ai tempi dell’Arte Povera e di Maurizio Cattelan si applicava la logica della spartizione, qui niente, basta, tutto per Tosatti.
Tra fiere, mostre, musei, istituzioni e biennali l’orologio dell’arte contemporanea in Italia riparte esattamente da dove si era fermato. «Dove eravamo rimasti?» furono le prime parole del povero Enzo Tortora tornato sugli schermi di Portobello. Al momento non ci sono segnali di cambiamenti in vista, mai si era visto un sistema più gattopardesco di questo.
cristiana perrella 19 cristiana perrella, direttrice del museo pecci gian maria tosatti