Ilario Lombardo per “la Stampa”
sergio mattarella mario draghi
Mara Carfagna è rimasta colpita dal tono. Il tono perentorio con cui Mario Draghi annuncia le proprie dimissioni ai ministri e che lascia davvero poco spazio ai dubbi. «La maggioranza di unità nazionale non c'è più», «è venuto meno il patto di fiducia», «non ci sono più le condizioni per andare avanti». È netto. Risoluto.
Non se l'aspettava Carfagna, né se l'aspettavano gli altri seduti attorno a quel tavolo. Il premier concede appena uno sguardo ad Andrea Orlando, che gli chiede un ripensamento prima di essere travolto dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, voluto da Beppe Grillo e mai amato dai grillini: «È anche colpa vostra che avete dato sponda al M5S». Sono le lacerazioni finali di un governo a pezzi. Quando Federico D'Incà esce dal retro di Palazzo Chigi ha sul volto tutto lo sconforto di chi ha corso con il secchiello per salvare la casa dallo tsunami: «Io sono un ottimista di natura, ma questa volta sono molto preoccupato per il Paese»
MARIO DRAGHI IN VERSIONE QUELO
I politici sono abituati ai politici, alle parole che sfumano, perché ogni possibilità e anche il suo contrario possa essere riacciuffata. «Draghi non è un politico» ripetevano dalla sua cerchia di collaboratori più stretti: «Farà quello che dice». E c'è da credergli a questo punto. Perché la giornata di ieri racconta di una fermezza che per alcuni è ostinazione, per altri coerenza, termine da pronunciare lontano da questi palazzi se non si vuole essere considerati degli sprovveduti e che fino alle sei di ieri pomeriggio strappava una risata a chi nei partiti è abituato a collezionare crisi di governo.
Certo è che, come si diceva nei giorni scorsi, Sergio Mattarella ci ha provato a placarlo e continuerà a farlo, convinto che non esista una fine finché non è finita. Draghi non ha aggiunto l'aggettivo «irrevocabile» alle sue dimissioni. Ha acconsentito al Capo dello Stato quando gliel'ha respinte con la motivazione che sarebbe stato opportuno onorare il Parlamento con un discorso in Aula. E così mercoledì Draghi sarà alla Camera da premier dimissionario, due giorni dopo la visita in Algeria, come da agenda. Per i partiti è uno spiraglio: cinque giorni sono un'enormità per tentare di capovolgere l'inevitabile, e scongiurare il voto.
Draghi è salito al Quirinale due volte. Ha rinviato il Cdm e poi è tornato perché da prassi le dimissioni si annunciano ai ministri prima di rassegnarle formalmente al presidente della Repubblica. Il premier sconfina un po' dal suo ruolo e con una certa irritualità, avvertita anche al Colle, anticipa in Consiglio la decisione che mercoledì farà le sue comunicazioni in Parlamento. Mattarella ha ragionato a rigore di Costituzione.
GIANCARLO GIORGETTI MARIO DRAGHI
Il governo non ha perso la fiducia dell'Aula. Anzi, il voto di ieri l'ha confermata. Si tratta di una crisi politica extraparlamentare e parlamentarizzarla serve anche a esplorare la strada della ricomposizione attraverso una verifica. Da qui a mercoledì tutto sarà capire se le resistenze di Draghi verranno scalfite e accetterà di passare da un voto che gli riconfermi la fiducia.
Anche perché lo spread, le borse, le pressioni europee e atlantiche avranno un peso.
Al momento, assicurano a Palazzo Chigi, non sarà così. I suoi collaboratori già lavorano al discorso. Che condenserà tutto quanto è successo, cosa ha portato alla scelta del gran rifiuto e perché non ha voluto ripensarci. Molto di quello che dirà lo ha già comunicato al suo staff e durante il confronto con Mattarella. Il primo motivo: «Non avrei più l'agibilità politica». Draghi si è guardato intorno.
Non c'è solo Giuseppe Conte e il M5S che non hanno votato la fiducia collegata a un testo contente l'inceneritore di Roma, per i 5 Stelle invotabile. Ma c'è tutto quello che questo strappo comporta. Il fatto che spalanca le porte a un senso di anarchia nella maggioranza. Lo prova l'atteggiamento di Matteo Salvini. Negli ultimi due giorni il presidente del Consiglio ha osservato il leader della Lega e vive come una «provocazione» che abbia chiesto uno scostamento di bilancio di 50 miliardi di euro, quando sa benissimo che l'ex numero uno della Banca centrale europea è contrario all'extradeficit.
Draghi non vuole mettere in gioco, dice, «una credibilità, una affidabilità, una reputazione» che si è costruito in tutti questi anni a livello globale. E fa nulla che gli abbiano riportato che dai vertici del Movimento sono già pronti a sventolare «il Papeete di Draghi» se non rimetterà in discussione le sue dimissioni. «Dovevano pensarci prima», sostiene amareggiato il capo del governo, disgustato da «ripensamenti tardivi» figli di «bizantinismi, ambiguità e alchimie» a cui non ha mai voluto cedere.
I fatti che vede Draghi sono semplici. Ieri il secondo partito della maggioranza, il primo fino a un mese fa, non ha votato la fiducia. Non ha nemmeno accettato il compromesso di far votare una parte dei senatori, come si lasciò fare alla Lega sul Green Pass lo scorso settembre. Anche un ministro, Stefano Patuanelli, senatore, ha disertato l'Aula.
E questo, per il capo del governo, è stato molto grave. E poi ci sono i discorsi, i comunicati, le affermazioni dei leader.
Draghi si aspettava altre parole da Conte, durante l'assemblea dei parlamentari in streaming di mercoledì sera, parole di moderazione e di buona volontà di ricucire. «Non altri ultimatum» come quelli che il M5S ha ribadito anche in Aula. Draghi le ha messe in fila, le dichiarazioni ufficiali: di Conte, ma anche di Salvini, e persino di Enrico Letta: «Ho notato che tutti chiedono le elezioni...». La conclusione della frase è conseguente: perché non sta al premier deciderlo ma, a questo punto, le forze politiche potrebbero essere accontentati. Per la prima volta anche al Quirinale non lo escludono. Il 10 ottobre, si dice già nella pancia dei partiti, tra la rassegnazione e la speranza di convincere all'ultimo secondo Draghi a restare.