Annalisa Cuzzocrea per "la Stampa"
C'è una cosa che Enrico Letta non si può permettere, nella partita del Quirinale. Si chiama sconfitta. Il segretario, che meno di dieci mesi fa ha preso in mano un Pd turbato dalle dimissioni improvvise del suo predecessore Nicola Zingaretti, ha vinto le amministrative di autunno contro le previsioni dei mesi precedenti, ha sondaggi che danno i dem stabili come primo partito e ha trovato un equilibrio in un governo che lo costringe a convivere con la Lega di Matteo Salvini. Quello a cui più tiene in questo momento, è tenere il Pd unito su questo percorso.
E non solo perché tanto il centrodestra che Matteo Renzi sono lì ad augurarsi che cada e a tentare di farlo inciampare. Non c'è giorno in cui il leader di Italia Viva non ripeta: «Letta sta sbagliando tutto». Ma soprattutto perché un passo falso sul Colle, adesso, vanificherebbe quanto costruito finora: la possibilità - stretta ma fino a qualche tempo fa considerata impossibile - di creare un campo che possa prevalere sulla destra alle prossime politiche.
«La parola chiave è unità», ha detto nelle ultime ore ai dirigenti che lo hanno sentito sulla linea da tenere. «Il 13 alla riunione congiunta dei gruppi parlamentari e della direzione formalizzeremo, insieme, i punti cardinali della bussola con la quale ci muoveremo. Prima di quella riunione qualunque discorso è totalmente prematuro». C'è una ragione per tanta cautela. Bisogna, prima di ogni cosa, disinnescare la candidatura di Silvio Berlusconi, che si pone come elemento di blocco davanti alla possibilità di qualsiasi accordo e che sta mettendo il capo di Forza Italia in una condizione di forza.
Uno scenario win-win, in cui l'ex cavaliere - sotto processo a Bari con l'accusa di aver indotto a mentire Gianpaolo Tarantini sul reclutamento di escort per le sue "cene eleganti" - anche nel caso dovesse rinunciare a essere eletto, potrebbe diventare il king-maker del prossimo capo dello Stato.
Con buona pace di Salvini e delle sue consultazioni a tutto campo. «Purtroppo Silvio vuole provarci davvero fino in fondo», ha detto a più d'uno il gran visir Gianni Letta. In più, nelle ultime settimane, Forza Italia sta riprendendo forza e risalendo nei sondaggi. Ma non è solo questa la preoccupazione del segretario dem. Ai più scettici riguardo all'idea che possa essere Mario Draghi il successore di Mattarella, Enrico Letta ha ripetuto: «Volete capire o no che è un punto di tenuta per il Paese?».
L'ex premier è rimasto molto colpito da quanto l'attuale presidente del Consiglio sia apprezzato, all'estero, soprattutto dal mondo progressista. Per questo, pensa che la sua figura non possa assolutamente essere bruciata per interessi di parte. Che vada preservata, o a Chigi o al Colle. Così, le ipotesi che ha tratteggiato nelle riunioni via Zoom con i ministri dem (i più ostili all'ipotesi Draghi nonostante alcuni riposizionamenti degli ultimi giorni) sono due. «Nello scenario A al Colle dovrebbe salire una figura simile a quella di Mattarella».
ENRICO LETTA PIERFERDINANDO CASINI
Che possa restare il capo dello Stato, è ormai considerato un desiderio impossibile. Non solo per quanto lo stesso presidente ha fatto capire a più riprese, ma anche perché a chiederglielo dovrebbe essere tutto il Parlamento e sul punto sia Giorgia Meloni che Berlusconi, col suo silenzio, si sono chiamati fuori. «Una figura che dia stabilità e assicuri la continuità dell'azione di governo in un momento così delicato». Quanto allo scenario B prefigurato dal segretario, «al Colle salirebbe Draghi, ma tutti noi dovremmo essere in grado di fare un doppio accordo: sul Quirinale e sul governo che avrà il compito di continuare la legislatura. Altrimenti, non potremmo reggere».
giorgia meloni enrico letta atreju
Nessuno nel Pd crede all'idea di un governo politico con la Lega che non si oppone, ma che si chiama fuori, come va dicendo in queste ore Matteo Renzi. «Perché dovremmo fare questo regalo a Salvini?», è la domanda che rimbalza tanto al Nazareno che dentro il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte. La responsabilità nazionale deve riguardare tutti gli attori attuali e del resto è lo schema che lo stesso Draghi ha disegnato nella sua conferenza stampa di fine anno. Nonostante lo scenario B cominci a prendere piede, però, i dubbi permangono.
Proprio perché - detta con uno dei ministri dem - «il governo che nascerebbe con una figura mediana, che sia Marta Cartabia o chi per lei, non avrebbe fiato e non resisterebbe alle pressioni dei partiti. Potrebbe durare fino all'autunno, non di più». Magari con la missione specifica di cambiare la legge elettorale e portare al voto, anche se questo ai parlamentari non bisogna dirlo per paura che qualsiasi accordo possa saltare.
La sinistra interna del ministro del Lavoro Andrea Orlando e del vicesegretario Peppe Provenzano tifa per lo scenario A e per Giuliano Amato al Colle. Per Provenzano però l'ipotesi Draghi non è affatto esclusa, purché con l'idea che si possa finalmente tornare a un confronto politico vero. «È inutile che la destra vada dicendo: vogliamo Draghi a Palazzo Chigi - ha detto il vicesegretario nelle riunioni di queste ore - perché se va avanti la candidatura di Silvio Berlusconi, Draghi non resta. Il governo cadrebbe subito e la destra lo sa: sono loro quelli che si stanno mettendo contro Draghi». Nelle prossime settimane, il velo non può che cadere.
Lasciando intravedere le reali volontà di entrambi gli schieramenti. Che per quanto recalcitranti, soprattutto a destra, a un accordo dovranno arrivare per forza. Lo dicono i numeri, spiega un dirigente dem che ha assistito a più di un'elezione presidenziale: «Il centrosinistra con Renzi ha, a spanne, 455 grandi elettori, il centrodestra - se avessero loro Renzi - ne avrebbe 490. Comunque non i 505 necessari. Senza contare la percentuale fisiologica di franchi tiratori». Destra e sinistra sono costrette a parlarsi. E Mario Draghi potrebbe essere, per tutti, l'unico modo per evitare una sconfitta.
giuseppe conte enrico letta ENRICO LETTA MATTEO SALVINI