Alessandro De Angelis per “la Stampa” - Estratti
(...) Di tutto questo, nella postura di Matteo Salvini non c'è traccia.
E lo si è capito sin dalla prima reazione: per un leader avvezzo ad attaccare giudici e istituzioni su tutto, è piuttosto bizzarro l'atteggiamento soft assunto con la Corte, che pure gli ha smontato la sua madre di tutte le riforme.
Anzi, addirittura in quel pronunciamento ha fatto finta di vedere una vittoria. Breve inciso (tecnico): per capire davvero l'entità delle modifiche da apportare bisognerà leggere pure le virgole delle motivazioni della Corte, che saranno note la prossima settimana. Lì ad occhio si capirà anche che fine farà il referendum, anche se per la certezza bisogna aspettare la Cassazione.
Il gioco politico però è già iniziato, complice la botta arrivata, e ogni testa è un tribunale. Secondo Carlo Nordio il referendum non si farà (e il guardasigilli non si straccia le vesti), secondo Elisabetta Casellati sì (e si propone di agire un ruolo di cerniera sulle modifiche), Giorgia Meloni e Antonio Tajani salomonici rassicurano che, per carità, il Parlamento farà tutto ciò che va fatto, ma si capisce che non hanno alcuna fretta.
Morale della favola, tutto racconta di un impaludamento, all'interno del quale Salvini però non è in grado di ingaggiare una vera vertenza politica. Né su questo né su altro. La discussione sulla manovra racconta lo stesso film.
matteo salvini comizio finale per le regionali in umbria foto lapresse
Insomma, un conto sono i fuochi d'artificio su zecche rosse e Netanyahu, quando invece c'è da fare sul serio la santabarbara è allagata. La ragione è semplice. Per quanto c'è chi racconta la favoletta che, se lo condannano, in fondo gli regalano il martirio sulla difesa dei confini, la verità è che è facile fare i condannati coi processi degli altri. Sarebbe un problema enorme per un leader così consumato nel rapporto col Paese.
Con l'aria che tira nel mondo – Donald Trump, Eleon Musk, l'Albania, il cattivismo delle parole e delle politiche – il dibattito sul «se resta o meno vicepremier» nemmeno si pone. Lì rimane. E non è poco avendo come orizzonte la sopravvivenza.
Ma qui c'è anche il problema. Proprio perché la permanenza al governo è la sua ultima ancora, se la deve tenere stretta, sacrificando tutto il resto ovvero il rilancio politico che, anche all'ultimo comitato federale, gli hanno chiesto i suoi con un certo vigore.
Ed effettivamente tutto è tarato su questo orizzonte corto. Dettaglio piuttosto indicativo: all'importante congresso regionale della Lombardia, su seimila iscritti, voteranno solo 300 delegati.
La motivazione – udite, udite – è che non si possono distogliere le forze dalla gazebata nazionale di solidarietà a Salvini convocata il 15 dicembre, a cinque giorni dalla sentenza.
E se passi da «prima il Nord» a «prima gli italiani» a «prima Salvini» ci sta che la maionese impazzisce: al Sud infatti è iniziata la fuga verso altri porti più sicuri, le truppe del generale Vannacci lo criticano da destra su Israele, la «questione settentrionale» rischia di scoppiargli in casa. Certo sull'Autonomia, ma anche sul Veneto. Neanche lì ha fatto le barricate sul terzo mandato di Zaia anche perché, in fondo, lo vive come possibile competitor interno.
ZAIA - GIORGETTI - FONTANA - CALDEROLI - SALVINI - FEDRIGA
Non è un caso che financo il mite governatore della Lombardia Attilio Fontana abbia chiesto una legge sul fine vita, sulla scia proprio del suo omologo veneto. Il che tradotto significa che aumentano i segnali di insofferenza da parte di tutto il famoso Nord dei governatori che vorrebbe fare la parte progressista e nordista della Lega e non la sezione italiana dell'Internazionale nera.
Succede sempre così: i malumori trattenuti e le contraddizioni irrisolte, prima o poi si manifestano. Anche se, per ora, non fanno un'alternativa interna.
MATTEO SALVINI A QUARTA REPUBBLICA 2 fontana salvini zaia matteo salvini