Lorenzo Lamperti per “La Stampa”
Rallentare è glorioso. O può diventarlo se lo si fa seguendo le priorità individuate dal Partito comunista. La Cina allaccia le cinture e si prepara a quella che potrebbe assomigliare a una frenata.
La Banca Mondiale ha tagliato le previsioni di crescita sia per il 2021, quando il Pil cinese dovrebbe espandersi dell'8% (a giugno ci si attendeva un +8,5%), sia per il 2022, quando la crescita dovrebbe perdere slancio e attestarsi al +5,1% (a ottobre si prevedeva un +5,4%).
Escludendo il +2,3% del primo anno di Covid, si tratterebbe del dato più basso in oltre tre decenni. Bisogna andare al 1990 per avere una crescita più lenta (3,9%), all'epoca motivata dalle sanzioni occidentali per il massacro di Tiananmen. A incidere un mix di fattori, tra i quali la crisi energetica dello scorso autunno e i timori di crollo del settore immobiliare generati dalla caduta di Evergrande.
Anche la pandemia è tornata a preoccupare: un nuovo focolaio ha portato a oltre 500 nuovi contagi a Xian, punto di partenza dell'antica Via della Seta. Gli affari potrebbero risentire della strategia "zero Covid", che insieme alla pretesa di mantenere immune il paese dal virus rischia allo stesso tempo di isolarlo.
Ora, però, il trend cinese potrebbe avere motivazioni più profonde rispetto al 1990 e a quel temporaneo ostacolo sul percorso tracciato da Deng Xiaoping con il lancio delle riforme economiche e del "socialismo con caratteristiche cinesi”.
Oggi c'è Xi Jinping, e il "nuovo timoniere" ha deciso che è venuto il momento di correggere la traiettoria degli ultimi decenni, che peraltro porterà nei prossimi anni la Cina a superare gli Stati Uniti e a diventare la prima economia mondiale.
Tra rischi di decoupling tecnologico e riscrittura delle catene di approvvigionamento, il Partito sta cercando di trasformare un problema in un'opportunità, anticipando una resa dei conti che sarebbe stata comunque in programma, anche se forse più avanti nel tempo e con modalità meno aggressive: quella coi colossi del settore privato, in particolare le Big Tech. Ecco allora sparire il target specifico sul Pil dal piano quinquennale approvato lo scorso marzo.
Ed ecco la "prosperità comune", nuova stella polare della retorica di Xi. Obiettivi dichiarati: bloccare l'espansione sfrenata del capitale, colpire gli abusi di posizione dominante e tutelare gli interessi di cittadini e Pmi, dando così maggiore stabilità alla crescita.
Obiettivi reali: rettificare le aziende private riorientandone le attività e tenendone in patria soldi e dati, ristabilendo una gerarchia precisa secondo la quale i centri di potere economico-finanziario sono assoggettati all'unico centro di potere politico esistente, il Partito.
Così si spiega il rafforzamento dell'arsenale normativo in materia di antitrust, cybersecurity e protezione dati. Ma anche la mancata quotazione di Ant Group. In poco più di un anno Alibaba ha perso 488 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, oltre la metà del suo valore. L'episodio di Jack Ma non è stato il classico "colpirne uno per educarne cento". Xi ha deciso di "colpirne tanti per educare tutti".
Basta guardare alle perdite in capitalizzazione dei colossi digitali nel 2021: Tencent ha visto sfumare oltre 121 miliardi di dollari, Kuaishou ne he persi 103, Baidu ha licenziato centinaia di dipendenti a causa della stretta sul gaming. Secondo un report di Lagou, a novembre la domanda di talenti dalle principali compagnie digitali è crollata del 26% su base annuale.
Nel 2007, poco prima delle Olimpiadi di Pechino, quattro delle prime 10 società mondiali per capitalizzazione di mercato erano cinesi. A poche settimane dalle nuove Olimpiadi di Pechino, stavolta invernali, nemmeno una.
Per sopravvivere bisogna seguire lo spartito di Xi. Come Didi Chuxing, che ha annunciato il delisting da Wall Street e la quotazione a Hong Kong. Come Alibaba e Tencent, che si sono buttate sul mercato strategico dei semiconduttori. Arricchirsi è glorioso solo se lo si fa con misura e, soprattutto, nel modo in cui desidera il Partito.