Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano”
Ogni volta che leggo una notizia sullo stato di salute di Marcello Dell' Utri il mio cuore sobbalza, e vengo pervasa da un senso di amarezza, di disgusto e di indignazione che credevo sopiti, e che invece riemergono intatti e vivi dentro di me.
Soprattutto vengo assalita da ricordi orribili, che tornano a galla nitidi, quelli dei giorni e dei mesi trascorsi in inutili e ridicole battaglie per dimostrare e certificare una accertata ed evidente incompatibilità con il regime carcerario, nell' illusorio tentativo di sottrarre un detenuto in attesa di giudizio a una condanna a morte certa, senza riuscirci, perché quella morte puntualmente è arrivata, nonostante fosse stata più volte annunciata, prevista e inascoltata.
Ogni volta che leggo una notizia sullo stato di salute di Marcello Dell' Utri, io penso a mio marito Angelo Rizzoli, arrestato nel 2013 in condizioni cliniche molto peggiori di quelle attuali dell' ex senatore, e in quelle gravi condizioni mai liberato, mai mandato in un luogo idoneo di cura né tantomeno ai domiciliari, se non allo scadere dei termini di legge, dopo quattro mesi e mezzo di carcerazione preventiva in cella, nei quali le sue molte patologie si sono aggravate, sono precipitate e lo hanno quindi, poco dopo, condotto a morte.
Senza mai aver subìto un interrogatorio, un processo o una condanna, ad eccezione di quella di morte, firmata in calce dalla giustizia italiana.
Ogni volta che leggo una notizia sullo stato di salute del detenuto Marcello Dell' Utri, io spero che la storia non si ripeta, che lui non faccia la fine di mio marito, anche se le loro situazioni sanitarie e giudiziarie sono molto differenti, come pure lo stato detentivo, che per Angelo fu solo preventivo, e fatto di abbandono, di noncuranza, di sottovalutazione e di isolamento, trascorso nel disinteresse generale e senza una voce che ne denunciasse alle autorità competenti l' incredibile crudeltà a lui applicata.
Ma più che le differenze, sono le analogie tra i due casi quelle che mi colpiscono, e quella che ritengo più pericolosa è la certificazione di "compatibilità" con il regime carcerario, firmata da un perito nominato dal giudice, il quale, in entrambi i casi, ha omesso di prendere visione degli esami strumentali, ignorato le analisi a disposizione ed evitato un approfondimento specialistico, pur nella discrepanza tra lo stato clinico evidente del detenuto e quello da lui certificato.
Quella dichiarazione di compatibilità, emessa in presenza di altri periti di parte che la contestavano apertamente con documenti inequivocabili, ha determinato di fatto la condanna a morte di Angelo, e deve essere tornata in mente a qualcuno se, alcuni giorni fa, ha indotto a intervenire ben due Garanti per i diritti dei detenuti, quello nazionale Mauro Palma e quello del Lazio Stefano Anastasia, che sono andati entrambi a verificare di persona la condizione in cui si trova Marcello Dell'Utri.
Il quale, ricordo, sta scontando una condanna definitiva per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa dal luglio 2014, e da allora è stato più volte ricoverato d'urgenza in pericolo di vita per seri problemi cardiaci, setticemici e prostatici.
Da mio marito Angelo non si è mai presentato alcun Garante, nessuna autorità competente ha mai denunciato la causa-effetto della sua inumana detenzione, nessuna coscienza illuminata ha mai pronunciato una parola: anzi, il pm che firmò il suo ordine di cattura è stato promosso al Csm, e soprattutto nessuna figura istituzionale ha mai chiesto scusa per quella morte annunciata, per quella inchiesta penale dalla quale lui è uscito in un silenzio imbarazzante, senza un processo, senza una condanna, epperò cadavere.
La mia non è una voce vedovile che lamenta un' ingiustizia subita e una morte evitabile, ma è quella di un ex parlamentare che ha cognizione di causa, che ha visitato le carceri italiane e verificato con i propri occhi la precaria situazione sanitaria di molte di queste che ho raccontato in un libro "Detenuti" (ed. Sperling&Kupfer), nel quale ho denunciato le evidenze cliniche di molti dei loro inquilini, alcuni dei quali erano talmente gravi che in quelle celle sono poco dopo deceduti.
La mia speranza è quella che ne venga evitata un'altra, di morte, che si tratti di Marcello Dell' Utri o di chiunque altro sia nelle stesse fragili condizioni, e la cui vita è custodita nelle mani dello Stato e affidata in quelle della Giustizia, due istituzioni del nostro Paese che dovrebbero tutelare i loro cittadini detenuti, qualunque sia il crimine commesso, assicurare loro dignità e diritti e almeno uno straccio di garanzia di vita e non di morte.