Roberto Scafuri per "Il Giornale"
Inforcati gli occhialini da presbite, è un Augusto Minzolini tutt' altro che remissivo, anzi battagliero come nei momenti migliori, quello che si presenta alla seduta pubblica della Giunta del Senato, chiamata a giudicare sulla sua decadenza in virtù della famigerata legge Severino.
L' ex direttore del Tg1, inviato della Stampa, nonché senatore che ha già promesso di dimettersi «il giorno dopo il vostro verdetto, qualunque esso sia», si dichiara caparbiamente convinto di essere «vittima di distorsioni e paradossi» che serviranno pure a fare il punto «della condizione della giustizia e della democrazia nel Paese», ma restano un tritacarne, «una persecuzione che non auguro al peggior nemico».
Reclama giustizia «giusta», Minzolini, ed è accompagnato da un luminare del diritto, l' amministrativista professor Federico Tedeschini.
Non basterà a far recedere la Giunta dal proposito «pilatesco» di perseverare, perché a fine giornata si decide a maggioranza di «proporre all' Aula la decadenza dal mandato perlamentare per motivi di incandidabilità sopravvenuta».
Si sposterà così al plenum l' ultimo atto di questa vicenda kafkiana, nella quale si aggiunge anche questo schiaffo dell'«incompatibilità sopraggiunta», ovvero dell' applicazione retroattiva di una norma che non esisteva quando i fatti accaddero. Una selve di guai e di anomalie sui quali si esprimerà anche la Corte europea dei diritti dell' uomo di Strasburgo.
«Ne faccio una questione di principio, sono convinto che la battaglia intrapresa vada al di là della mia persona», aveva ripetuto Minzolini ancora una volta al presidente di Giunta, Dario Stefàno, e ai colleghi, leggendo una memoria che ripercorreva minuziosamente tutti i passaggi della vicenda.
Una una carta di credito attribuita dalla Rai all' allora direttore del Tg1 come «benefit compensativo», avendogli negato il permesso di continuare la collaborazione con il settimanale Panorama. E spese effettuate, ma restituite alla prima eccezione. Ma se pure «tutti i miei guai sono cominciati e finiti con la Rai», questa degli accordi aziendali «disattesi» è solo il primo passo del suo inoltrarsi nella giungla infida e malsana di Saxa Rubra.
Il peggio accadrà dopo. Un primo processo lo scagiona, mentre in appello nel collegio giudicante si scopre esserci Giannicola Sinisi, già deputato e sottosegretario ulivista durante i governi Prodi e D' Alema, poi senatore, quindi tornato in magistratura.
«Com' è potuto accadere?», s' interroga senza darsi pace il senatore in decadenza. «Chi sapeva che questo giudice si trovava in questa posizione?», incalza Tedeschini, sottolineando come ci fossero «tutte le condizioni perché il magistrato si astenesse».
Non l' ha fatto; anzi, la condanna (ormai passata in giudicato) è andata persino oltre le richieste del Pm. «Il cuore di tutto è se Minzolini abbia avuto un giudizio equo e imparziale», spiega il forbitissimo Tedeschini. «Abbiamo documentato al di là di ogni ragionevole dubbio la iniquità nella composizione del collegio».
Ma non solo. Qualche componente della Giunta ha chiesto quali possano essere le conseguenze di un giudizio contro Minzolini, se il ricorso europeo poi venisse accolto. «Se la Corte ci darà ragione, a Minzolini sarà riconosciuto un danno corposo e a quel punto la Corte dei conti dovrà recuperare il danno da chi questo danno ha causato».
Anche i senatori che dovessero esprimersi per la decadenza, perciò. A brigante, brigante e mezzo.