PIERLUIGI BATTISTA per corriere.it
Peccato che in Italia (ma anche altrove) il dibattito intellettuale si sia così rinsecchito e incattivito da preferire la scomunica alla libera discussione, altrimenti i saggi e gli articoli raccolti da Sergio Luzzatto in Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia, in libreria dal 12 settembre per la casa editrice Donzelli, potrebbero suscitare vivaci repliche, contestazioni, tentativi di confutazione, ma sempre basati su argomenti, tesi contrapposte, osservazioni specifiche.
Invece, come è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro che riesumano alcune polemiche smodate del recente passato di cui Luzzatto è stato protagonista e vittima, si sfodera con grande facilità l’arma impropria dell’anatema, dell’isolamento del reprobo, della caccia all’eretico.
Luzzatto racconta delle reazioni violente a un suo libro, Partigia (Mondadori), su Primo Levi: insulti, processi alle intenzioni, linciaggi, come se sfiorare temi controversi fosse la profanazione di un tabù. Mai un’aperta battaglia di documenti contro documenti, interpretazioni contro interpretazioni, in una disputa anche feroce ma leale. I lettori del «Corriere della Sera» conoscono inoltre con quanta virulenza e con quanta violenza venne fatto il vuoto attorno ad Ariel Toaff per un libro che poi l’autore è stato costretto a ripudiare per non perdere ogni aggancio con la cattedra universitaria.
Lo sguardo di Luzzatto, ovviamente, si sofferma sulle vicende della grande storia ebraica, sul surplus di sensibilità che ogni esplorazione di questa storia comporta, perché sembra impossibile affrontarle come se si avesse come oggetto di studio «un popolo come gli altri», come appunto recita il titolo. C’è una frase di Luzzatto, per esempio, destinata ad esacerbare la discussione: «L’intera dinamica della Shoah viene consegnata a una dimensione astorica, o addirittura trascendente». Ma se non bastasse questa frase che è già aspra, urticante, dolorosa, eccone la conclusione: «con un vantaggio netto per gli eredi dei carnefici, e anche — in un qualche dolorosissimo modo — per gli eredi delle vittime».
Luzzatto è intellettualmente incline alle affermazioni nette, poco aperte alle mediazioni e alle sfumature. È fortemente attaccato a una tesi. E la tesi che porta con accanimento avanti da anni è che lo Stato di Israele sia macchiato sin dalle origini da una tentazione etnicista, in cui l’integralismo religioso («lo Stato degli ebrei») si alimenta con la sacralizzazione della Shoah, la grande tragedia storica che l’Israele di David Ben Gurion, prima ancora delle componenti di destra, avrebbe voluto porre come base di perenne legittimazione di una creatura esclusivamente politica come lo Stato.
Per quanto appoggiata ad alcuni scritti di Amos Oz, si tratta di una tesi estrema e ingenerosa, perché se c’è qualcosa di unico e di imparagonabile nella storia dello Stato di Israele è la pervicace, violenta, indiscussa negazione del suo diritto alla stessa esistenza decretata dai nemici. Ma è, appunto, una tesi che merita di essere contestata e, se si è in grado di farlo con argomenti forti, molto indebolita con le armi della discussione e non quelle del linciaggio: un linciaggio, su cui peraltro Luzzatto sorvola, che colpì brutalmente Hannah Arendt con il suo Eichmann a Gerusalemme.
Ma Luzzatto, nelle sue considerazioni sulla storia dei «ghetti» italiani, o sulle manifestazioni dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo, sulle implicazioni culturali che hanno fomentato nei secoli la grande persecuzione antiebraica fino alla catastrofe apocalittica della Shoah, in realtà mostra una tenacia e un’attenzione che non è solo quella dello storico chino sui documenti.
È soprattutto la ricerca di un filo che possa spiegare il destino di un popolo che non riesce ad essere «un popolo come gli altri» per scoprirne motivazioni profonde, anche inconsapevoli. Rifiutando gli assunti anch’essi spesso inconsapevoli che incardinano la maggioranza degli studi collocati nella «Jewish History»: «Il postulato — riconosciuto o sottaciuto — per il quale esiste, all’interno della storia universale, una storia ebraica a sé stante, quintessenziale, quasi metafisica, che va distinta dalla storia di tutte le altre culture del mondo, di tutti gli altri popoli della terra». E poi, continua e conclude Luzzatto, «il potere della storia non potrà mai essere tanto forte come il potere della letteratura. Ma anche lo scrivere di storia non è forse un modo per tenere insieme i vivi e i morti, la presenza e l’assenza».
Come se Luzzatto cadesse in una considerazione sentimentale, «tenere insieme i vivi e i morti», che un po’ smentisce la freddezza analitica dello storico che parla attraverso lo spassionato esame dei documenti reperiti e disponibili, il demolitore dei miti sacri della storia ebraica tramandata trova però la radice di una pietas alimentata dalle innominabili persecuzioni subite da un popolo che gli «altri» non vogliono trattate come qualunque altro popolo. Una forma di immedesimazione simpatetica che addolcisce la rigidità dello storico. Non fosse che per questo, occorrerebbe dismettere l’atteggiamento arcigno dello scomunicatore che sostituisce l’argomentazione con l’anatema, che uccide ogni discussione e vuole conservare della storia soltanto il mito incontaminato.