1 - ITALIANI IN CARCERE ALL'ESTERO PIÙ DI TREMILA DIETRO LE SBARRE
Francesco Semprini per "la Stampa"
Tremilacentonove connazionali reclusi all'estero. È questo il drammatico quanto sorprendente bilancio dei cittadini di nazionalità italiana rinchiusi negli istituti penitenziari di tanti Paesi sparsi per il mondo.
Un vera e propria popolazione carceraria, sul modello di quella esistente entro i confini nazionali, fatta di casi passati in giudicato, talvolta figli di sentenze affrettate e sommarie, e a loro volta motivo di battaglie per la libertà e il diritto a un processo giusto. Ma ci sono anche tante persone in attesa di giudizio, per le quali il carcere preventivo diventa una condanna di fatto. Migliaia di casi, talvolta simili fra loro, altre diversi, che vedono le autorità italiane impegnate in attività delicate e complesse, spesso condotte in riservatezza per tutelarne il buon esito e senza compromettere i rapporti istituzionali.
È il ministero per gli Affari esteri a gestire la gran parte delle operazioni relative a casi di italiani costretti dietro le sbarre di carceri straniere, attraverso la capillare rete di rappresentanze diplomatiche presenti sul territorio straniero. Questo rientra nei più generali compiti che vedono la Farnesina assistere in senso lato i connazionali fuori dai confini attraverso la Direzione Generale per gli Italiani all'Estero e il «network» di ambasciate e consolati nel mondo.
La sua opera si esplica attraverso la fornitura di certificazioni e servizi, come appunto l'assistenza consolare in caso di incidenti, questioni giudiziarie e casi che riguardano i minori, ovvero sottrazioni internazionali e adozioni. Secondo fonti ben informate, nel 2011 all'attivo del Mae ci sono stati circa settemila interventi diretti di assistenza in favore di italiani all'estero, con uno sforzo che ha visto impegnati funzionari a ogni livello. In questo contesto si inserisce il capitolo dell'assistenza ai connazionali detenuti all'estero, considerato uno degli aspetti «strategici», per la complessità e l'articolazione dei suoi aspetti.
PRIGIONE La SanteSecondo le ultime rilevazioni interne sono appunto 3.109 i casi di nostri connazionali che si sono trovati alle prese con la giustizia straniera e attualmente in stato detentivo.
La mappa della popolazione carceraria vede una indiscussa dominanza dei Paesi del Vecchio continente. Risultano infatti 2.477 gli italiani rinchiusi nei penitenziari europei, ovvero il 79,67 per cento. Segue, a lunga distanza il continente americano nelle cui prigioni si trovano allo stato attuale 483 connazionali, pari al 15,53 per cento. Sono 73 invece quelli detenuti in Asia e Oceania, ossia il 2,34%, a seguire 64 nei Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, pari al 2,05%. Risultano infine 12, ovvero lo 0,38%, gli italiani reclusi nelle carceri di Paesi dell'Africa sub-sahariana.
L'assistenza ai connazionali arrestati all'estero si concretizza in una serie di interventi messi in pratica da ambasciata o consolato. Riguardano sia la costante assistenza mediante visite in carcere e il mantenimento dei contatti con la famiglia, sia l'aiuto dal punto di vista legale, che può concretizzarsi nella segnalazione di avvocati e interpreti, nell'erogazione di sussidi o prestiti, sempre in compatibilità con il budget e le risorse finanziarie messe a disposizione delle autorità diplomatiche.
L'assistenza inoltre, si esplica agendo in tutti i modi e in tutte le direzione consentiti dall'ordinamento locale, ovvero dalla legge vigente nel posto in cui si trova il connazionale recluso. E ancora intervenendo presso le autorità locali per garantire azioni a tutela dei diritti del cittadino italiano, per ottenere informazioni e, in caso, per sostenere una domanda di grazia per ragioni umanitarie.
Infine, qualora il Paese dove è detenuto il connazionale aderisca alla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento dei carcerati o abbia stretto accordi bilaterali «ad hoc» con lo Stato italiano, il Mae ha facoltà di sostenere l'istanza di trasferimento in Italia presentata dal detenuto. Sono stati diversi i casi di questo genere che si sono verificati in passato che hanno permesso di riportare a casa i detenuti, e nei casi di accertata colpevolezza, facendo scontare loro la pena nelle patrie galere.
CARLO PARLANTI2 - CARLO PARLANTI: "VI RACCONTO IL MIO INCUBO AMERICANO MA LA BATTAGLIA NON È ANCORA FINITA"
Marco Bresolin per "la Stampa"
Chiuso in carcere per otto anni. Uno in Germania, sette negli Stati Uniti. Ma Carlo Parlanti, 47 anni, si è sempre detto innocente. Inutile la sua battaglia per smontare le accuse che gli venivano mosse dall'ex compagna. Sul suo caso medici e criminologi hanno scritto libri e trattati per dimostrare «le prove inconsistenti» e smascherare i «certificati medici fraudolenti», costati una condanna al manager informatico.
Partiamo dal 5 luglio del 2004: lei era in viaggio da Dublino a Düsseldorf per lavoro.
«Arrivato nello scalo tedesco fui arrestato: c'era un mandato internazionale, "Red Alert"».
Di cosa era accusato?
«Nel 2000 per lavoro mi ero trasferito negli Usa, a Westlake Village, California. Avevo una relazione con una donna, Rebecca. La ospitavo a casa mia, ma due anni dopo la nostra storia finì. Nel 2004, quando io vivevo ormai da due anni in Europa, saltò fuori la denuncia di Rebecca. Sono rimasto in carcere 11 mesi in Germania, poi gli Usa hanno ottenuto l'estradizione: finii nel carcere di Ventura. Ero accusato di stupro e sequestro. E nell'agosto 2005, all'udienza preliminare, emersero cose assurde: al momento della denuncia, nelle foto della polizia, lei non presentava alcun segno sul corpo. Anche i certificati medici risultarono poi contrastanti e manipolati: il materiale è tutto online. L'accusa era debolissima».
Le proposero di patteggiare?
«Tre volte: se avessi accettato sarei stato libero dopo poche settimane. Ma io rifiutai. Perché un innocente deve ammettere colpe non sue? A dicembre, però, la corte decise: colpevole».
A quanti anni fu condannato?
«Il giudice emise la sentenza nell'aprile del 2006, dopo che noi avevamo messo in Rete i documenti del processo: nove anni, la pena massima. Fu una ritorsione. A ottobre del 2006 fui trasferito nel carcere di Avenal».
Peggio lì o in Germania?
«A Düsseldorf vidi un paio di risse in 11 mesi: pensavo fosse l'inferno. Ad Avenal ne vidi due già il primo giorno. Subii tre aggressioni, una di queste mi provocò l'epatite C. La violenza era all'ordine del giorno: gli agenti giravano in tenuta anti-sommossa».
Nel febbraio scorso ha finito di scontare la sua pena.
«Uscito dal carcere, per gli Usa ero clandestino. Restai in un centro per immigrati alcuni giorni. Poi, ammanettato, mi misero sull'aereo per l'Italia».
Ora come vive la sua libertà?
«Da un lato continuo la mia battaglia per far emergere la verità e ottenere giustizia. Dall'altro cerco di ricostruirmi una vita professionale. Otto anni di ritardo, nell'informatica, sono un'eternità, per questo sto studiando molto. Prima di quell'inferno progettavo siti web. Dopo la scarcerazione, quando mi sono trovato in mano uno smartphone, sembravo un bambino di cinque anni. È molto dura».