Federico Fubini per il “Corriere della Sera”
Come in un dialogo del teatro di Eugène Ionesco, i personaggi si parlano ma non si ascoltano. La loro conversazione segue percorsi che non s' incrociano mai. Poco importa che una maggiore attenzione al contesto e alle motivazioni degli altri aiuterebbe forse (anche) l' Italia a promuovere meglio le proprie priorità a Bruxelles.
In particolare, due fattori sembrano sfuggire al dibattito interno al Paese sulla finanza pubblica e la natura delle regole europee. Il primo è che, mentre esamina i conti di questo governo, la Commissione Ue si trova essa stessa sotto esame e oggi è nelle condizioni peggiori per poter ignorare le norme delle quali è l' arbitro.
Ma l' altro ingrediente ha implicazioni anche più profonde per l' Italia: nel governo tedesco la fiducia nel «Fiscal compact» europeo è ormai scesa ai minimi, esattamente per ragioni opposte a quelle sostenute dal premier Matteo Renzi. Invece che troppo stringente, viene considerato di fatto fallito.
La Commissione Ue non può permettere a nessun Paese di derogare troppo platealmente alle regole di risanamento del Fiscal compact, neanche se volesse, perché la sua credibilità è messa sempre più in discussione in Germania. La Bundesbank e il ministero delle Finanze tedesco parlano ormai apertamente dell' esigenza di togliere il ruolo di guardiano del Fiscal compact all' esecutivo di Jean-Claude Juncker e affidarlo a un nuovo organismo.
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L' obiettivo è sottrarre la vigilanza sui conti ai negoziati e alle pressioni dei governi, e affidarlo a un' autorità puramente tecnica. Toccherebbe poi ai ministri finanziari nell' Eurogruppo confermare o meno i giudizi proposti dal nuovo arbitro indipendente.
Il messaggio per Juncker è dunque chiaro: se permetterà che certi Paesi ignorino le norme di bilancio, da Berlino si premerà per sottrargli poteri e rilevanza. La prima conseguenza è che i margini per un mercato politico dei favori fra Bruxelles, Roma e qualunque altra capitale sono sempre più stretti.
C' è però anche l' altro problema: né Berlino né Francoforte (sponda Bundesbank) credono più nell' efficacia del «Fiscal compact». I principali governi lo disattendono. La Francia sta entrando nel club dei Paesi con un debito pubblico attorno al 100% del Prodotto interno lordo; l' Italia, quantomeno, non fa tutto ciò che potrebbe per farlo scendere.
Di qui la proposta del presidente della Bundesbank Jens Weidmann (riferita sul Corriere il 15 agosto scorso) che già da allora era fatta propria dal governo di Berlino: creare di fatto obbligazioni subordinate anche per gli Stati, soggette all' azzeramento o a una sforbiciata sul valore a danno degli investitori. Berlino propone di applicare ai governi indebitati regole simili a quelle già in vigore per le banche.
In caso di nuove tensioni sul debito e ricorso al fondo salva-Stati (Esm), per esempio, un governo smetterebbe di rimborsare i creditori e di versare gli interessi sui propri titoli di Stato per la durata del programma. Come per le banche, l' obiettivo della Germania è far pagare ai creditori almeno parte delle crisi di debito e ridurre così il peso finanziario dei salvataggi.
Non si tratta di una manovra tattica senza effetti pratici. In centri studi come Bruegel a Bruxelles e fra gli economisti più qualificati, l' ipotesi di una classe di titoli di debito pubblico subordinati viene discussa ormai in dettaglio. Per i tedeschi alzare un argine contro il rischio di dover pagare per una nuova crisi nel Sud Europa, a torto o a ragione, è ormai una priorità. Poco importa che introdurre titoli di Stato subordinati alzerebbe subito il costo di finanziamento per il governo e le banche italiane, o che aumenterebbe i rischi per i risparmiatori.
Facile dunque immaginare che effetto fa ogni segnale da Roma di voler rimettere in discussione le regole di bilancio: accelerare la pressione dei tedeschi a proteggersi, recidere i legami, e procedere un po' più in là verso la frammentazione finanziaria di Eurolandia.