Carlo Bertini per “la Stampa”
Ora che il partito del voto nel 2018 si farà forte delle motivazioni della Consulta, Matteo Renzi si prepara a bruciare i tempi e a convocare un congresso anticipato da celebrare a breve. Il leader Pd vuole uscire dall' angolo se - come sembra - non riuscirà a strappare il voto a giugno: fare una legge che dia maggioranze omogenee nelle due Camere richiederà tempo. E dunque spunta una data, il 30 aprile, per la convocazione dei gazebo.
Dopo un percorso che verrebbe avviato ai primi di marzo con un'assemblea nazionale: dove il leader si dimetterebbe da segretario per far partire l' iter delle assise straordinarie.
Ma Renzi tiene aperto il doppio binario, senza rinunciare del tutto all' idea di andare alle urne, come dimostra una nota di Matteo Ricci, «election day a giugno con le comunali, altroché congresso», diffusa quando escono le motivazioni della Consulta: giudicate dai tecnici Pd più favorevoli del previsto. «Se non si riesce a votare a giungo, non ci sto a restare fermo a farmi cucinare, a quel punto faccio il congresso», ragiona l' ex premier con i suoi deputati.
Nella war room renziana la mossa di velocizzare i tempi viene spiegata anche come un contropiede quasi obbligato, «perché i bersaniani vogliono fare il congresso a giugno sperando che noi perdiamo le amministrative». Il timore infatti è di prendere una scoppola pure alle comunali: Genova in bilico, a Palermo la convinzione è che «si vince ma facendo l'accordo con Orlando», altri Comuni sono a rischio, Parma, Piacenza, Verona, La Spezia, Pistoia e Lucca.
Insomma meglio consumare la resa dei conti prima. «Questi qui - ragiona Renzi con i suoi - mi vogliono cucire la gabbia costringendomi a non andare a elezioni e a farmi fare il congresso quando secondo loro sarei cotto a puntino...». Il leader vuole pure evitare di diventare il capro espiatorio delle mancanze, o dei limiti che potrebbero riguardare il governo. Viceversa sa che con lo scatto avanti, i vantaggi sono fulminei: costringere la minoranza a trovare un candidato unico che non c' è, a interrompere qualche mese il tiro al piccione.
Scongiurare la scissione, perché dopo aver fatto la battaglia congressuale nessuno potrà uscire dal Pd, almeno a breve. Nel partito la guerra è aperta: al Senato esce un documento per elezioni prima possibile con premio di lista e non di coalizione, firmato da senatori dell' area più vicina a Orfini dei «giovani turchi». Dodici dei quali hanno però firmato anche il documento dei quaranta critico verso Renzi, a dare l' idea della confusione.
Lo scenario di un' accelerazione piomba nel summit dei bersaniani alla Camera. Speranza mette in guardia, «il congresso deve essere una cosa seria». Ma se Renzi lo convocherà la scissione verrà messa in soffitta. «Io prima della Direzione di lunedì non dico una parola, vorrei capirci qualcosa», dice Bersani.
«Anche perché: siamo sicuri che sarà convocato il congresso?» La domanda svela una preoccupazione non da poco: perché se la rinuncia al voto a giugno da parte di Renzi in Direzione sarebbe una sorta di vittoria, è vero pure che la convocazione del congresso subito obbligherebbe a risolvere una domanda senza risposta: con quale candidato la minoranza sfiderà Renzi?.
«Per ora abbiamo le idee», ammette Bersani. Eccolo squadernato il problema numero uno di tutti gli avversari del segretario: unirsi nella battaglia sotto un solo condottiero. Che non potrà essere Enrico Letta, «aspetta di capire il momento migliore per tornare in campo ma non credo sarà il congresso», dice il suo scudiero Marco Meloni. E mentre Speranza, Emiliano e Rossi si scaldano a bordo campo, gli occhi sono puntati su Andrea Orlando, anche se lui continua a dire che non si candiderà e i renziani sono convinti che «non sfiderà Matteo, sta con noi».