“CALCIOPOLI NON FINIRÀ MAI” – GIANFELICE FACCHETTI RICORDA LA BATTAGLIA DI SUO PADRE GIACINTO: “È STATO LASCIATO TROPPO SOLO, E QUESTA COSA ALLA LUNGA LO HA FATTO AMMALARE. DELL’INTER ERA INNAMORATO. PER TUTELARLO, NEL FUGGI FUGGI GENERALE, HO QUERELATO PER DIFFAMAZIONE LUCIANO MOGGI E SONO ANDATO A TESTIMONIARE A NAPOLI. QUELLO CHE HO DETTO È AGLI ATTI DEL PROCESSO. LA CONSIDERO LA MIA MEDAGLIA” - QUANDO DIEGO DELLA VALLE CANDIDÒ GIACINTO ALLA PRESIDENZA DELLA FEDERCALCIO, SENZA SAPERE DELLA MALATTIA…

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Estratto dell'articolo di Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”

 

giacinto gianfelice facchetti giacinto gianfelice facchetti

Il plateale passaggio di consegne è negli occhi chiari e buoni, diventati grandi all’ombra dell’olmo Facchetti, terzo di quattro figli che somigliano al capostipite come copie carbone, dentro e fuori.

 

Avendo avuto come genitore un totem, dell’Inter e della Nazionale («Noialtri, a casa, eravamo la sua terza amatissima famiglia»), Gianfelice Facchetti si è sforzato di fare il calciatore — portiere: diventare difensore dopo Giacinto, l’uomo che inventò il ruolo, era troppo — prima che l’animo artistico e la voglia di esprimersi sul palcoscenico prendessero il sopravvento su quella vita vissuta nel microcosmo tra i pali, liberandolo da un’eredità pesante come un macigno. Tutto il suo amore per il Cipe (la leggenda vuole che il soprannome di Giacinto sia nato da una storpiatura di Helenio Herrera) Gianfelice l’ha riversato in un libro suggestivo, «Se no che gente saremmo», che prende il titolo dalla frase-mantra del gigante del calcio italiano.

 

facchetti herrera facchetti herrera

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Cambiò nel passaggio da calciatore a dirigente?

«Eh, da dirigente ha fatto più fatica a mantenere la sua proverbiale tranquillità. Dell’Inter era perdutamente innamorato: con il desiderio di tutelare il club in anni non facili ha speso molte energie e, in qualche momento, si è sentito molto solo».

 

Condivideva, in casa, o si teneva tutto dentro?

«Con molto pudore, condivideva. Riaffiora come fosse ieri una sensazione di stupore, concentrazione e solitudine: cercava di capire se ne valesse davvero la pena».

 

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giacinto gianfelice facchetti giacinto gianfelice facchetti

Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair; Mazzola, Peiró, Suarez, Corso. Allenatore Herrera. Chissà quanti incontri, nel salotto di casa, in quegli anni.

«In realtà la casa era un luogo protetto, riceveva raramente. Era come se volesse tutelarci, lasciando il lavoro fuori dalla porta. Il mio incontro più sorprendente avvenne in Brasile nell’87, quando l’Italia partecipò a una specie di Mundialito. Partì tutta la famiglia al completo. Il giorno di Italia-Brasile al Maracanà, in albergo spunta Pelé. Papà me lo presenta, io rimango impietrito, con gli occhi fuori dalle orbite. Ho 13 anni».

bedy moratti facchetti bedy moratti facchetti

 

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Sarebbe piaciuto a Giacinto il calcio di oggi, dominato dal business e dai diritti tv, senza più mecenati, in mano a arabi, cinesi, americani?

«Il calcio diventato un fenomeno televisivo ha fatto in tempo a vederlo: negli appunti che prendeva su foglietti sparsi scriveva che la tv ha portato una ricchezza che doveva essere reinvestita nei settori giovanili, negli impianti, nelle zone povere del Paese e del pianeta. Vedeva molte opportunità inesplorate: quella ricchezza gli sembrava infruttifera, speculativa. Oggi, infatti, siamo alla resa dei conti. E poi la Nazionale, la sua sconfinata passione: due Mondiali consecutivi da spettatori gli avrebbero spezzato il cuore».

 

Com’era guardare le partite insieme a lui? Magari una finale di Champions persa con il City al 68’?

Gianfelice Facchetti-Javier-Zanetti Gianfelice Facchetti-Javier-Zanetti

«Impegnativo, per noi ragazzi: voleva un tifo costruttivo. Nei confronti della Nazionale, poi, pretendeva sempre il massimo rispetto. Qualche mese prima che se ne andasse, Diego Della Valle lo aveva candidato alla presidenza della Federcalcio, senza sapere della malattia. A papà aveva fatto un enorme piacere».

 

Va a trovarlo, ogni tanto, al cimitero di Treviglio?

«Ho un mio sentimento del sacro, per sentire papà non ho bisogno di andare al cimitero: l’affetto ancora palpabile nei suoi confronti lo tiene vivo e presente. Ho apprezzato l’idea di Ita Airways: in cielo c’è un aereo che vola con il suo nome sul muso».

 

luciano moggi luciano moggi

Da figlio, crede che il dolore per le vicende di Calciopoli quand’era presidente dell’Inter, in seguito all’attacco del sottobosco calcistico, oltre che un male nell’anima abbiano provocato a Giacinto anche il male nel corpo?

«L’ho pensato. All’Inter non avrebbe mai detto di no: poche figure sono state così fedeli allo stesso club da giocatore e dirigente. L’Inter era la sua chiamata alle armi quotidiana.

Soprusi, furbizie e prevaricazioni lo mandavano ai matti. È stato lasciato troppo solo, e questa cosa alla lunga lo ha fatto ammalare. Purtroppo Calciopoli non finirà mai, ci sarà sempre chi prova a screditare.

 

Ma la testimonianza più bella di mio padre arriva dalla strada: il tifoso che organizza una mostra nelle Langhe per ricordarlo, la signora che ti ferma per dirti che bella persona era papà. Per tutelarlo, nel fuggi fuggi generale, ho querelato per diffamazione Luciano Moggi e sono andato a testimoniare a Napoli. Quello che ho detto è agli atti del processo. La considero la mia medaglia».

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