Andrea Pugliese per gazzetta.it
A Torino ci sarà, ma ancora una volta come capitano non giocatore. Perché il ginocchio non è guarito bene, perché l’infortunio che lo tiene fuori dal 28 ottobre lo fa soffrire. Ma anche perché la sua presenza è fondamentale anche solo come tale. Daniele De Rossi, del resto, per la Roma oggi non è solo il capitano, ma anche la bussola polare. “È l’infortunio più grave della mia carriera – dice a Dazn -. Si parla di cartilagine, ho subito una lesione grave. Sarebbe gravissimo se si dovesse rompere ancora a 35 anni. Ci vuole tempo, ho ripreso a correre e a calciare ma sono ancora indietro”. E allora a Torino ci sarà, ma solo per far sentire la sua presenza a tutto il gruppo.
IL SOGNO — Poi Daniele analizza proprio il momento che sta vivendo, uno dei più brutti della sua carriera. “Quando ero piccolo avrei firmato per fare la metà delle partite che ho fatto in Serie A, sono un privilegiato. Ho fatto il lavoro che amavo, nella città che amavo, con le persone che amo. Mi pesa guardare sotto il burrone, perché la fine è vicina, soprattutto in questo momento. So che mi farà male quando smetterò. Che manchino sei mesi, un anno, o tre anni, comunque siamo agli sgoccioli”. Quando succederà, ci sarà il grande passo, quello da allenatore.
“Ho questo sogno di fare l’allenatore e se devo pensare a tutte le cose che deve fare un allenatore, la cosa che mi spaventa di più è quella di dover fare cento interviste a settimana. Mio padre (Alberto, allenatore della Primavera giallorossa, ndr) mi dice che fare l’allenatore è bello, ma è un lavoraccio. Lui è un maestro, non ha avuto mai l’ambizione di diventare il nuovo Guardiola, Sacchi o Mourinho. Da lui posso imparare tanto. Non so se sarò capace ma viaggerò e studierò per imparare”.
LE SFIDE DOC — Poi l’attualità, proprio con la sfida di sabato alla Juventus. Ai più forti di tutti. “Abbiamo talmente tanta pressione addosso che non viviamo bene l’attesa. Abbiamo tanti pesi sulla schiena, siamo in un momento delicato perché sappiamo che dobbiamo fare meglio di quello che stiamo facendo. Siamo tutti sotto osservazione, mister compreso, e lo sappiamo.
Vogliamo fare una grande partita più per noi che per l’importanza della sfida. Contro i più forti di tutti”. Sperando, però, che la Roma trovi il guizzo e la rabbia per competere. “La squadra è forte, i nuovi che sono arrivati sono forti. L’errore che abbiamo fatto è stato di parlare troppo dei giocatori che sono partiti. Il dolore per quelli che sono partiti rimane, ma doveva essere assimilato in maniera più sciolta”.
Infine il Porto e la Champions, con il ricordo di quel playoff del 2016 che ancora non gli è andato giù: “È l’inizio di un sogno e una pagina nera della mia carriera. Sono stato espulso, un rosso che ci ha penalizzato in una gara già complicata. È un peso che sento e ho sentito tanto dentro di me. Ora rimane solo l’avversaria che ci divide dalle prime otto di Europa”. Al Porto, però, ci si penserà più avanti. Ora c’è la Juve. E poi Sassuolo e Parma, prima della sosta. Qui la Roma si gioca molto del suo futuro. De Rossi ci sarà, anche se forse ancora non in campo.
MENTALITÀ — “Le grandi squadre hanno bisogno di grandi giocatori e grandi uomini e spesso le due cose coincidono - continua ancora De Rossi -. Grandi professionisti che hanno in testa la mattina e la sera quello che sarà il risultato della domenica. Questo è quello che ho imparato di più dai miei avversari juventini che spesso sono stati miei compagni di nazionale.
E più invecchio e più mi rivedo in questo tipo di mentalità. La famiglia diciamo che è più importante. Pero il calcio è il primo pensiero della mia vita perché mi rende felice. Non riesco a farlo passare in secondo piano come forse riescono alcuni colleghi. Non penso che se sei un professionista per ottenere grandi risultati ci sia bisogno che sia romanista o un tifoso, quella è una cosa in più che io non posso togliermi perché fa parte della mia vita”.
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