Giancarlo Dotto per la Gazzetta dello Sport
Sente le voci di dentro, come Eduardo. Non si limita a sentirle, obbedisce ciecamente. Una di loro gli disse un giorno che per mondarsi l’anima dal peccato d’aver preso troppi soldi da quel satana di Zamparini doveva ricominciare una nuova vita. Accettò di allenare la Carrarese in serie C dopo sei anni di eremitaggio in montagna a una sola condizione: non essere pagato. Zero.
Neanche un rimborso spese. Harakiri esemplare. Alla Mishima. Del martire che scopre la voluttà della sconfitta e si da fuoco o si fa esplodere sul più bello, per ricordare a se stesso che non c’è vita sulla terra se non vivendo a tempo pieno nella fornace dei sensi. Troppo per se stesso, troppo per chiunque. Nella tradizione di una terra, tra Massa e Carrara, di anarchici furiosi, a cominciare da Michelangelo e da papà Valentino che si arrampicavano a scegliere il marmo giusto con cui fare all’amore o semplicemente campare.
Dovevamo vederci a Perugia. Non c’è stato il tempo.
“Il tempo è il bene più prezioso. Se non ce l’hai vuol dire che non esisti. E il mio tempo a disposizione è sempre meno. Non mi va di sprecarlo. Le cose accadono in fretta”.
Palermo e poi Perugia in rapida sequenza. Molli prima gli sceicchi e poi Santopadre, a distanza di due mesi e mezzo. Allora è tutto vero, sei un pazzo irrecuperabile, quanto meno un blasfemo.
“A 64 anni non desidero altro che vivere alla mia maniera, essere fedele a me stesso, al mio bisogno di emozioni forti. Per me la famiglia è tutto, se non sono felice con me, non posso esserlo nemmeno con loro”.
Andiamo con ordine. Le dimissioni dal Palermo a fine luglio. Il Palermo che avevi portato in serie B.
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“I nuovi proprietari non credevano in me. Basti pensare che mi hanno lasciato un anno di contratto mentre a Corini, il mio successore, hanno fatto un biennale. Avevo tre fisioterapisti miei e me ne hanno imposti altri due, insieme a un preparatore atletico di cui non avevo bisogno”.
Ti sei chiamato fuori dopo un mese anche dal Perugia.
“Mi dispiace. Avevo la fiducia del presidente e del direttore, mi affascinava la città, la favola del Perugia di Sollier, Curi, Vannini, come quella del Cagliari, quando le favole erano ancora possibili”.
Ma…
“Ho trovato bravi giocatori ma tra loro non c’era quel legame vero che porta i risultati. Non era una famiglia. Quando non c’è famiglia, non c’è amore, non c’è passione”.
I risultati non vengono solo dall’amore. Hanno vinto squadre nella storia del calcio i cui giocatori si sarebbero volentieri presi a sprangate.
“Non ho il culto della vittoria. Non m’interessano le vittorie dove non c’è amore e spirito di fratellanza”.
Non ti sei dato il tempo di costituirla questa famiglia a Perugia.
“Non c’erano le condizioni. Io vedo le cose con il cuore, non con gli occhi”.
Delirante. Parlare di promozione in A con una squadra ultima in classifica.
“Non sono un pazzo. Non c’era questa differenza tecnica incolmabile tra noi e i primi. Ma bisogna credere all’impossibile, bisogna credere ai propri sogni”.
Manca al Perugia l’attitudine al sogno?
“Quando ti accorgi che l’egoismo dei singoli è superiore alla capacità di sognare non puoi farci niente. Il calcio non ti dà tempo. Non erano i risultati a preoccuparmi, ma le prestazioni di una squadra che si rifiuta di sognare”.
Il presidente Santopadre ha provato a convincerti?
“Lui è una persona semplice, bellissima la sua storia da imprenditore. Ha provato a chiamarmi ma avevo staccato il cellulare. Quando prendo una decisione non torno indietro”.
Il tuo amico Spalletti dice di te: “Silvio è troppo avanti. Anni di anticipo. Il calcio non è ancora pronto per uno come lui”.
“Ci si conosce con Luciano da quando giocava nello Spezia. Abbiamo radici simili. Lui ama la campagna come me, suo padre gestiva delle riserve di caccia. Ci uniscono tante piccole cose”
Sta facendo cose straordinarie con il suo Napoli.
“Gioca un calcio che in Europa non fa nessuno. Merita un premio il suo lavoro e l’otterrà. Lui è uno che fa bene al calcio. Andrò a trovarlo due o tre giorni nella sua tenuta, ma prima vado una settimana a disintossicarmi da Mario”.
Chi è Mario?
“Il mio amico pastore che vive sulle montagne siciliane con le sue mucche, le capre e i cani randagi. Quando vado e lui mi parla io torno bambino. Di quando domava il suo cavallo guardandolo negli occhi. Come quando ascoltavo le favole della nonna”.
Il tuo amico Lele Adani e tanti altri dicono che tu dovevi diventare il Marcelo Bielsa italiano. Un altro “loco” come te.
“Ognuno deve essere se stesso, non si deve vergognare della sua storia. La vita è corta, non sono un tipo che si può adattare. La comodità non fa per me, non mi dice niente. Non ho mai inseguito il denaro, è la mia forza”.
Hai ancora un futuro nel calcio?
“Non lo so e non m’interessa. Non penso al futuro, il futuro è la mia decadenza, io voglio vivere intensamente il presente, essere quello che devo essere. Se poi si creano le condizioni giuste…”.
E se non si creano?
“Quando verrà la decadenza insopportabile del corpo farò come i cani e i capi indiani. Mi allontanerò, andrò a morire per i fatti miei in montagna. La Signora vestita di nero verrà a prendermi e io l’aspetterò. Cercherò di ammaliarla con le parole. Le dirò che non ho rimpianti. Che non mi è mancato niente”.
Mai trovato un’anima gemella nel mondo del calcio?
“No, ma tante persone solidali. A cominciare da Spalletti, De Zerbi, Lippi, lo stesso Conte. Mancini non lo sento, ma mi dicono che mi stima molto”.
Dicono tutti che sei un grande innovatore del calcio ma poi ti è venuta la sindrome di Gesù, cerchi più apostoli che giocatori, sali e scendi dalla croce.
“Non è follia, non è utopia, è una condizione magica di anime che si scelgono. È successo l’anno scorso con il mio Palermo. Un dono del destino”.
Si dice che il punto di non ritorno della tua storia di allenatore è quando hai preso a calci in culo in mondovisione il tuo collega Di Carlo.
“Arriva un punto della vita in cui non te ne importa più nulla di cosa pensano gli altri e delle conseguenze dei tuoi atti”.
Sei rimasto l’unico in Italia a dimetterti.
“È un problema degli altri, non mio. Ho rinunciato a tutto. La mia famiglia non ha bisogno di soldi ma di me, del mio amore, della mia felicità”.
Cosa scatta nella testa di Silvio Baldini ogni volta che ti parte l’impulso irrefrenabile?
“Una grande tristezza. Ti senti un incompreso. Hai dato tutto, mostrato la più grande diponibilità e alla fine sei costretto fare questi gesti per non subire situazioni che non ti appartengono”.
Cosa fa Silvio Baldini quando è invaso dalla tristezza?
“Penso solamente a vivere. Vedi, ora comincia ad albeggiare, tra mezz’ora respirerò l’aria della montagna e calpesterò foglie secche gigantesche. Penso a mia figlia Valentina. Lei e mia moglie mi hanno segnato la vita. Mi va bene rimanere senza niente, ma non posso perdere le mie donne”.
Valentina, la tua figlia gravemente disabile.
“Lei è stata la chiave di tutte le mie scelte. Se sono quello che sono è perché e lei a dirmi che sono nella strada giusta. Lei e i due figli maschi, due uomini pieni di valori”.
Giri sempre con un punteruolo in tasca?
“Sempre. Ora più che mai, sto andando da solo nel bosco”.
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