Sergio Arcobelli per il Giornale
Quando nell'inferno di Manila sconfisse Joe Frazier in 14 riprese, Muhammad Ali definì quello scontro come «la cosa più vicina alla morte mai vissuta». Sette anni dopo, ci è voluta una morte vera per cambiare per sempre la boxe: quella del sudcoreano Duk Koo Kim.
La mano omicida, se così si può dire, era stata quella dell'italoamericano Ray Mancini, campione del mondo dei pesi leggeri WBA, che il 13 novembre 1982 a Las Vegas tramortiva al 14° round con un terrificante destro al volto lo sfidante. Kim non si rialzò mai più. Il coreano, infatti, morirà cinque giorni dopo nel Desert Springs Hospital di Las Vegas.
Quattro mesi più tardi, in preda alla disperazione, la madre di Kim si tolse la vita, idem l'arbitro dell'incontro, Richard Greene. Un solo pugno aveva causato la morte di tre persone. Mancini, per ovvie ragioni, da quel giorno non fu più lo stesso. Eppure, Kim non era stato il primo pugile a morire a causa delle lesioni subite sul ring. Né è stato l'ultimo. Ma quella tragedia scosse così tanto il mondo della boxe che la sua stessa esistenza fu messa in discussione. Ray Mancini, 38 anni fa il suo pugno cambiò la storia e fece male al mondo.
«E da allora quel senso di colpa mi ha accompagnato per quasi tutta la vita. Prima dell'incontro con Kim, ero un pugile di 21 anni così famoso che Frank Sinatra volle conoscermi. Persino Reagan mi ricevette alla Casa Bianca. Vorrei non averlo dato». Il suo cognome rivela il suo sangue italiano.
«A Youngstown, in Ohio, dove nacque mio papà Lenny, figlio di un emigrato siciliano di Bagheria, mi veneravano, per via del mio stile aggressivo che avevo ereditato da mio padre, come del resto il soprannome Boom Boom.
Anche mio papà Lenny era un pugile, lo faceva per sfamare la nostra famiglia ai tempi della crisi del '29. Lo scoprii nella lavanderia del seminterrato, quando vidi vecchi ritagli di lui sul ring. Scelsi di fare il pugile perché volevo vincere quel titolo mondiale che mio padre, ferito in maniera grave durante la seconda guerra mondiale, non poté vincere, benché fosse il numero uno. Ci riuscii. Questa storia, la nostra storia, piaceva alla gente».
Quanto l'ha cambiata l'episodio di Las Vegas?
«Quella notte, tutto l'amore che avevo per il pugilato svanì per sempre. Fino ad allora avevo combattuto per motivi validi, all'improvviso sentivo come se non ci fosse nulla di giusto in quello che facevo. Da quel momento la boxe diventò solo una questione di business. Quando tornai sul ring la fiamma si era già spenta».
Che ricordi ha del dopo match?
«Ero sdraiato sul letto in hotel con la borsa del ghiaccio su un occhio, mi si avvicinò il mio allenatore con un'espressione seria e mi disse: Ray, il tuo avversario è in pericolo di vita, devi prepararti al peggio. Ma io non mi ero neanche accorto che Kim lo avessero portato in ospedale».
Il suo primo pensiero?
«Guardai le mie mani e mi chiesi: come è potuto succedere? Non ci potevo credere. Pensai che avrei potuto essere io al suo posto. Nel giro di un paio d'ore, passai dal momento più esaltante della mia vita alla disperazione più profonda».
Come superò quella tragedia?
«Caddi in depressione, sì ma ne uscii grazie alla mia fede. Parlare con il mio prete, con uno psicologo e con la mia famiglia mi aiutò, ma riprendermi del tutto dipendeva solo da me. Ci sono riuscito».
Di recente, sono state altre tre le vite spezzate sul ring
«Nel pugilato, come in altri sport di contatto, possono esserci incidenti, alcuni anche gravi. Ma non è uno sport fatto per uccidere. Non a caso è la nobile arte».
Dopo il suo match con Kim, cambiarono le regole: su tutte, quella di ridurre i round da 15 a 12.
«Una farsa. La scelta di diminuire il numero di riprese non ha impedito ad altri pugili di morire ancora oggi. Anzi, sono state più le morti sul ring nei 38 anni successivi al mio match con Kim che nei sessant' anni precedenti.
Ne ho parlato con neurologi e neurochirurghi: non ci sono prove sostanziali sul fatto che la maggior parte degli incidenti avvenga dal 12° al 15° round. Così facendo la boxe ha perso il suo storico fascino. Non ci saranno più fenomeni come Rocky Marciano, Carmen Basilio e Roberto Duran, il migliore di tutti e mio amico».
Nel 2011 aprì le porte di casa sua a Chi Wan, il figlio di Kim e sua madre.
«È stato un momento molto toccante. Per rompere il ghiaccio, gli ho mostrato una foto di mio padre Lenny. Poi ci siamo abbracciati, abbiamo pianto e ci siamo fatti forza l'un l'altro. Senza inibizioni».
Ora lei di cosa si occupa?
«Commercio vino e bourbon e gestisco alcune società di produzione cinematografica. Stallone ha anche prodotto un film sulla mia vita nel 1985, Il cuore di un campione. Ma non abbiamo mai recitato in un film insieme, non ancora».