Stefano Scacchi per “Avvenire”
Importiamo troppo, esportiamo pochissimo. Il saldo commerciale dei calciatori italiani è nettamente in deficit con ripercussioni nefaste sulle possibilità di scelta del ct azzurro Roberto Mancini, che va inevitabilmente in affanno per mancanza di alternative quando vengono a mancare le prime linee migliori, come successo con Spinazzola e Chiesa, fondamentali agli Europei (il terzino sinistro fino ai quarti col Belgio), fuori causa per gravi infortuni nella volata delle qualificazioni Mondiali.
Nelle analisi successive alla disfatta con la Macedonia del Nord è stato ampiamente citato il dato sulla percentuale di stranieri in Serie A: dal 62% sul totale dei tesserati fino al 69% del minutaggio. Un'incidenza che riduce in modo ingiustificato lo spazio a disposizione degli italiani. Ma questo effetto è aggravato da un'altra tendenza meno indagata: i nostri calciatori non vanno a giocare all'estero nei grandi campionati stranieri.
Sono solo 8 gli italiani presenti negli altri quattro tornei che rientrano tra le Leghe europee Top 5 insieme all'Italia. Jorginho, Gollini, Ogbonna in Premier League; Grifo e Caligiuri in Bundesliga; Donnarumma, Verratti ed Emerson in Ligue 1; nessuno nella Liga.Siamo in un limbo totalmente improduttivo. Anche i movimenti più ricchi del nostro, come quello inglese e spagnolo, esportano più calciatori.
Gli inglesi negli altri campionati principali del continente sono quasi il doppio degli italiani: 15. Ben 7 sono in Serie A: Tomori, Abraham, Maitland-Niles, Tuanzebe, Binks, Smalling e Ronaldo Vieira. Non ha senso. Il nostro campionato, decisamente più povero di quello inglese (i ricavi italiani sono un terzo di quelli della Premier League), offre ai calciatori d'Oltremanica più opportunità di crescita rispetto a quanto accade nella direzione opposta.
Dovrebbe succedere esattamente il contrario. La tendenza è ancora più accentuata con gli spagnoli, anche loro dotati di un campionato più ricco della Serie A. Sono ben 58 nelle massime divisioni di Italia, Germania, Inghilterra e Francia. La colonia più nutrita è in Premier: 27.
Segue la Serie A con 15: Fabian Ruiz, Luis Alberto, Morata, Brahim Diaz, Odriozola, Deulofeu, Carles Perez, Patric, Pablo Marì, Castillejo, Pedro, Raul Moro, Callejon, Reina e Salva Ferrer. In posizione intermedia si colloca la Germania con 29 (9 in Serie A). In questa graduatoria è nettamente in testa la Francia che ha ben 98 calciatori tra i club dei campionati più importanti: 33 in Bundesliga, 26 in Premier League, 20 nella Liga e 19 in Serie A.
Questi numeri sono fondamentali perché danno la misura del bacino a disposizione delle nazionali. Abbiamo il 10% in più di stranieri nel campionato domestico rispetto a Germania e Francia, addirittura il 20% rispetto alla Liga. Ma non compensiamo minimamente con le presenze all'estero. La Spagna riesce ad avere club competitivi nelle coppe e contemporaneamente a esportare per mettere alla prova i giovani talenti che non trovano spazio nella Liga.
Ormai il vivaio del Barcellona è diventato una fucina di calciatori per la Serie A, quasi più dei nostri settori giovanili. Abbiamo smesso di essere i più ricchi, ma ci comportiamo come se lo fossimo ancora perché continuiamo a comprare massicciamente all'estero, senza essere un Paese esportatore di calciatori di alto livello, come fa la Francia su ampia scala.
E come fanno Spagna, Germania e Inghilterra in modo sempre più consistente. Gli agenti dei calciatori italiani attendono giustamente che sia riformulata l'agevolazione fiscale del Decreto Crescita, che ha ulteriormente spinto a ingaggiare giocatori stranieri, ma non riescono a trovare canali utili per garantire sistemazioni di buon livello ai loro assistiti.
A meno di pensare davvero che gli italiani improvvisamente abbiano disimparato a giocare a calcio. Il movimento calcistico tricolore è indietro anche su un'altra questione: l'utilizzo dei "nuovi italiani", i figli degli immigrati. Una risorsa sfruttata ampiamente da Francia, Germania e Inghilterra, molto meno dall'Italia. In questo caso intervengono motivi storici e normativi che vanno al di là del calcio. Nei campionati giovanili dilettantistici circa il 30% dei giocatori è di origine africana o araba.
Una percentuale che non si ritrova nei vivai professionistici perché questi ragazzi, non avendo ancora la cittadinanza italiana, occuperebbero uno slot da extracomunitari, pur essendo a tutti gli effetti un prodotto del nostro sistema calcistico. E devono aspettare i 18 anni per diventare italiani, come successo con Okaka e Balotelli, pur essendo nati nel nostro Paese. Qualcosa sta cambiando perché adesso i genitori possono chiedere la cittadinanza dopo cinque anni di permanenza con un lavoro regolare in Italia. E potranno passarla ai figli dopo averla ottenuta. Ma servirà ancora qualche anno per vedere gli effetti di questa inclusione.