Filippo Maria Battaglia per “La Stampa” - Estratti
Ha seguito da inviato dieci Olimpiadi e altrettanti Campionati del mondo di calcio, ma se gli si chiede di scegliere tra lo sport e Sanremo, Marino Bartoletti non ha dubbi: «Il Festival – risponde secco –. Peraltro ci sono un po'di cose in comune: in entrambi devi avere talento, in entrambi ti batti per un applauso e la vittoria all'Ariston è assimilabile a uno scudetto». E proprio a Sanremo è dedicato il suo nuovo romanzo Il festival degli dei (Gallucci), in uscita martedì, quinto di una saga in cui il «Grande Vecchio» (Enzo Ferrari) incontra nel «Luogo» (l'aldilà) sportivi, attori, giornalisti.
Stavolta tocca ai cantanti. Al Festival lei ha fatto anche il selezionatore.
«Due volte, l'ultima con Pippo Baudo, nel 2008. Arrivarono più di 300 testi, tra cui quello del mago Otelma. Dopo la bocciatura, lanciò un anatema. E in effetti quell'edizione non andò benissimo».
A chi deve la passione per la musica?
«A mio padre: suonava nelle prime orchestre del liscio romagnolo. Conservo ancora i suoi strumenti, sono tra le cose più importanti della mia vita».
Faceva il sarto, come sua madre.
«Sì, grazie al loro lavoro la televisione arrivò a casa nel 1957.
Mamma era stanca di non saper cosa rispondere alle clienti che le chiedevano di confezionare il vestito indossato la sera prima da Nilla Pizzi».
(...)
Molta musica e molto sport. E a scuola?
«Feci lo Scientifico perché era il più vicino a casa, poi iniziai Medicina perché i miei ex compagni erano iscritti lì. Alla fine mi laureai in Legge, ma già dopo le prime lezioni andai a bussare al Resto del Carlino. E fondai un giornalino di pallacanestro».
Si chiamava Pressing.
«Facevo tutto: il direttore, l'inviato, il fotografo. Avevo anche una terza pagina. Chiesi un articolo a Luciano Bianciardi, che leggevo sul Guerin Sportivo: me ne scrisse uno, bellissimo, in cui chiamava la pallacanestro "palla al corbello"».
Ma è vero che per quel giornale scrisse anche Lucio Dalla?
«Accettò a patto che non modificassi nulla. Sosteneva di essere stato un potenziale grande cestista, lui che era alto un metro e mezzo trattabile. Lo ringraziai, qualche mese dopo ci rincontrammo. "Come va il tuo giornalaccio? ", mi chiese. E io: "Non so se riesco a fare gli ultimi numeri, non ho i soldi". Dopo un concerto, decise di regalarmi l'incasso».
Grazie alla sua rivista conobbe anche il telecronista Aldo Giordani.
«Fu lui che mi invitò ad andare a Milano. Venni ammesso così al sacro soglio di Gianni Brera, allora alla guida del Guerin Sportivo».
Di cui lei 15 anni dopo sarebbe diventato il direttore. Come andò l'incontro?
«Era il giorno in cui compiva 52 anni: mi sembrò vecchissimo. Disse solo: "Tel chi" ("Eccolo qui", ndr), poi si rimise a scrivere sulla sua "Lettera 22"».
Poco dopo la portò al Giorno, per cui seguì i Mondiali del 1978 in Argentina.
«Una mattina, a Buenos Aires, mi chiamarono dalla reception dell'albergo: "C'è un commissario che vuole parlarle". Salii sulla macchina senza conoscere la destinazione. Iniziai a spazientirmi, mi risposero: "L'aspetta Venusta Mussolini"».
Mussolini?
«Era la cugina di primo grado di mio nonno Armando, trasferitasi lì nel dopoguerra. La famiglia di mio padre era originaria di Predappio, mio nonno fece da guardia del corpo al giovane Benito quando era ancora socialista, poi gli tolse il saluto. Prima però, nel 1911, lo salvò da un colpo di sciabola di un carabiniere a cavallo. Si tagliò il tendine della mano e per tutta la vita restò convinto di aver cambiato la storia d'Italia».
A proposito di Sud America: ci tornò per il Mundialito del 1981 e la arrestarono.
«Dopo un Brasile-Argentina finito a scazzottate. Venne colpito un tenente dell'esercito: pensando che fossi stato io, mi diede uno spintone. Da sangue romagnolo, ricambiai. Mi liberarono solo dopo l'intervento dell'ambasciata».
MARADONA LA MOGLIE MARINO BARTOLETTI GIANNI MINA
In quella partita segnò anche Maradona. È lì che lo vide la prima volta?
«No, lo conobbi al raduno dell'Argentina al Mondiale di tre anni prima. Diego non aveva ancora 18 anni e, anche se non convocato, era aggregato. Di lì nacque una bella amicizia».
È stato l'unico giornalista invitato al suo matrimonio insieme a Gianni Minà.
«Nel 1989. C'era il gotha della politica, della finanza, dello spettacolo. E poi c'era un tavolo con una dozzina di ragazzi, vestiti dimessi. Erano i suoi compagni d'infanzia, sopravvissuti all'inferno della sua terra, Villa Fiorito».
Negli stessi mesi fondò la redazione sportiva di Mediaset. Il talento che ricorda con più affetto?
«Alberto D'Aguanno, se ne è andato troppo presto. Ma il ricordo più divertente di un'assunzione riguarda Guido Meda. Stava facendo il militare e si presentò vestito da ufficiale di cavalleria, con tanto di stivaloni».
Poi tornò in Rai. Come nacque l'idea di "Quelli che il calcio"?
marino bartoletti idris fabio fazio
«Sin da piccolo io non ascoltavo la radio: la guardavo, e grazie a quelle parole vedevo partite bellissime. Per questo ero convinto che Tutto il calcio minuto per minuto potesse diventare anche una trasmissione tv. Nel 1993 incrociai l'allora direttore di Rai3, Angelo Guglielmi, e gli diedi due cartelle con l'idea del programma».
E lui?
«Mi disse: "Non capisco molto di questa cosa, basta che facciamo più del 3%". Ritagliai per me e Carlo Sassi il ruolo di playmaker, il problema è che mancava il frontman».
Pensaste subito a Fabio Fazio?
«Prima chiamammo Gianni Morandi, Andrea Mingardi, Gaspare e Zuzzurro. Tutti dicevano di no, poi spuntò il nome di Fabio. Un suo rivale, per paura che lo facessero fare a lui, propose Dario Fo».
E come andò?
«Partimmo per Spoleto, dove recitava "Mistero buffo". Ci ascoltò. Poi, dopo una lunga attesa, Franca Rame disse: "Il mio Dario, una stronzata così, non la farà mai". Alla fine, Guglielmi accettò Fazio».
Jannacci si convinse subito a riadattare la canzone "Quelli che" per la sigla?
«Sì, ma a pochi giorni dall'inizio non avevamo ancora il nastro. Lo sollecitammo, ci disse: "È in portineria". Scoprimmo che a casa sua non c'era né il nastro né la portineria. Ogni settimana quella sigla sarebbe stata montata in modo diverso da quel genio di Paolo Beldì».
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