DAGOREPORT – INTERVISTA AD ACHILLE BONITO OLIVA
Dago - Ah, la vita accidentata dell’arte contemporanea! Oggi guardare un’opera senza essere provvisti di una ‘’teoria’’ vuol dire essere praticamente dei reietti. Da Documenta a Istanbul, le Biennali sono diventate sedi ideologiche. Dunque, la ricca borghesia che si può permettere di gironzolare per la metropoli turca a caccia dei nascondigli fatiscenti scelti accuratamente dalla curatrice Christov-Bakargiev deve pagare il fio della sua classe sociale. Deve espiare l’abuso che fa dell’arte un passatempo per ricchi annoiati…
ABO - Il valore della Biennale curata da Christov-Bakargiev è il nomadismo, lo spostamento che il pubblico è costretto a fare per la disseminazione delle opere in vari punti di Istanbul, conosciuti e sconosciuti, storici e moderni, comodi e scomodi. Attraverso questa esplorazione ecco che il pubblico non è più una presenza passiva ma diventa protagonista attivo di una Biennale che magari non vedrà mai tutta - e questo è anche interessante: una visita relativa e imperfetta come la vita, faticosa come la vita, nel senso che è da vedere, da scoprire, da conoscere, da disconoscere, da amare e da respingere. Quindi, questa Biennale è una vera e propria esperienza.
E bisognerebbe sempre ringraziare il sindaco di Venezia Dino Villatico che nel 1893 creò lo statuto della Biennale dopo aver visto l’Expo Universale di Parigi rendendosi conto che Venezia era il teatro giusto per una mostra che riprendeva i caratteri dell’Expo, dove ogni paese offre la propria merce. Se avesse depositato il copyright, Villatico avrebbe accumulato una fortuna: oggi ci sono Biennali in tutto il mondo. In questa ripresa di un modello, Venezia è come Istanbul, una città cosmopolita che ha storia e geografia, il luogo adatto perché è anche una terra di nessuno.
Una Biennale punitiva con opere disseminate in una metropoli più incasinata di mille Napoli?
Sì, c’è un elemento continuamente alternativo comune ad alcuni curatori di oggi, un elemento politico che proviene dal ‘68 e dal ‘77: il timore che anche una proposta alternativa sia assorbita dal sistema, ecco allora creare una scomodità supplementare. Elitismo radical chic? Ma alla fine questa terapia è incoraggiante: il pubblico dell’arte contemporanea sta aumentando come presenza numerica.
D’altra parte l’arte cos’è? Lo dico spesso: è un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva. L’arte ha questa funzione di creare nervosismo, di creare disagio, spingendo il pubblico al protagonismo… Un modello che ho creato nel ‘93, sparpagliando 14 mostre per Venezia.
Alla nostra presenza la Christov ha detto orgogliosamente che sarebbe stata una buona idea invitare Toni Negri…
Negri sta facendo adesso una serie di analisi politiche assolutamente interessanti, dove sta mettendo in evidenza questo elemento della finanza, che è un elemento concettuale, astratto, creativo, diffuso.
L’arte dovrebbe avere un ruolo politico, trasformare la realtà. Ma la realtà resta una metafora, si chiama ‘’coscienza infelice’’, è un‘analisi che faceva già Marx. La Biennale, poi, non deve rispecchiare solo la situazione turca-curda-siriana, l’arte lavora sulla globalizzazione, su una visione globale delle cose e non solo su fatti specifici e territoriali.
carolyn christov bakargiev biennale istanbul
Per onestà, quello che non accetto è quando gli intellettuali vogliono fare - sempre metaforicamente - i guerrieri a chiacchiere, a parole. Nella Biennale della Christov credo che ci sia anche una conoscenza dell’arte e dell’informazione e il tentativo di spostare l’attenzione degli artisti e del pubblico su tematiche che spesso nell’arte non vengono assunte.
In tale nomadismo non mi pare che capiti spesso di essere ricompensati dalla visione del Nuovo & Interessante: i già visti Kentridge, Villar Rojas, Ed Atkins, etc. Del resto, dall’’80 in poi abbiamo solo la ripetizione, il sequel, il remake, il manierismo…
carolyn christov bakargiev con achille bonito oliva
Finita la creazione, ora c’è la ricreazione. Un lavorare su ciò che è stato fatto e già visto, un neo manierismo che ritroviamo dappertutto, dal design all’architettura. Perchè non c’è più creatività? Perché non c’è più il principio di invenzione, non c’è più fiducia nel futuro, nella storia, c’è un eterno presente in cui siamo bloccati. La post-modernità è questo blob generale che va avanti di ripetizione in ripetizione, solo coazione a ripetere. La stabilità in un eterno presente.
La tecnologia ha svuotato tutte le arti visive e non?
La tecnologia non ci salverà: è un moltiplicatore, non un sistema di invenzione, è un mezzo, non è un fine e allora questo mezzo tranquillizza tutti perché diffonde un falsa democrazia del consumo. Il fai da te della tecnologia vuol dire che non c’è più bisogno del giudizio, che tu elabori un prodotto tuo originale, vince la tautologia, sì perché sì. La perfomatività della tecnologia si chiama autoreferenzialità. C’è un delitto iniziale che è il protagonismo, il narcisismo motore ecologico della vita di tutti, anche i santi sono ormai narcisisti.
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La diffusione perversa della tecnologia ha creato uno spostamento dal narcisismo alla vanità - e la vanità è il pret à porter del narcisismo. Una identità bidimensionale, di superficie, senza più la profondità - puro apparire. E l’epifania non arriva solo il 6 gennaio, arriva ogni giorno che appare, scompare, riappare, comunica, posta: Facebook è un condominio di convivenza di soggetti.
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La tecnologia non si può fermare perché è giustamente e assolutamente amorale; non deve avere una teoria, è come la televisione, come il frigorifero, conta quello che ci metti dentro, come la usi, anzi come l’abusi. Non c’è scampo... Ripeti appresso a me: Padre nostro che sei nei cieli… Amen.
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