EIA, EIA, ALAIA! LA MODA IN GALLERIA: HANNO SENSO I VESTITI TRA I CAPOLAVORI BORGHESE? - "E’ IL TRIONFO DELLA “DOTTRINA EATALY” MA ALAIA NON E’ UGUALE A BERNINI: PER COMPRENDERE ENTRAMBI ABBIAMO BISOGNO DI DISTINGUERLI.."

Il critico Montanari: La mostra che la Francia ha dedicato ad Alaia non si è tenuta al Louvre ma nel museo della moda, a New York i suoi abiti sono stati esposti al Guggenheim. Se, invece, in Italia li portiamo alla Borghese è per l'incapacità di saper usare il nostro patrimonio culturale e di costruire veri luoghi del contemporaneo (il fallimento del Maxxi è solo una tra mille prove)”...

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Tomaso Montanari per “la Repubblica”

 

Tra i più miracolosi organismi artistici creati nella storia occidentale, la Galleria Borghese è scaturita dall’ispirata collaborazione tra arti, epoche e stili diversi. Il risultato è un contesto perfetto, in cui ogni aggiunta è una diminuzione. È per questo che — a Villa Borghese più che altrove — ogni mostra dev’essere necessaria.

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Ebbene, è proprio necessario affiancare alla Pala dei Palafrenieri , dipinta da Caravaggio per un altare di San Pietro, un manichino femminile che mette in forma un lungo abito bordeaux? E far scortare il David di Bernini da due vestiti minigonna, uno bianco e uno nero? Ed è necessario che un terzo abito, con pelliccia, sia esposto proprio di fronte alla candida Paolina Borghese di Canova? Fa questo ed altro la mostra Couture Sculpture : che fino al prossimo 25 ottobre mette i vestiti dello stilista franco- tunisino Azzedine Alaia letteralmente sullo stesso piano dei marmi e dei quadri della Galleria Borghese.

 

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È da molto tempo che la moda ha fatto irruzione nei nostri musei: con le sfilate di moda nei corridoi degli Uffizi, o con il moltiplicarsi dei manichini intorno all’Ara Pacis. Ma in quei casi si trattava di eventi commerciali in cui non si cercava di instaurare un rapporto formale tra abiti e opere: bastava usare i musei come location di lusso (con esiti imbarazzanti per tutti). La mostra della Borghese ha invece una ben diversa ambizione culturale: punta, fin dal titolo, sull’equivalenza tra la couture di Alaia e la scultura di Bernini e Canova.

Purtroppo non si tratta di un’idea originale: per il senso comune di oggi i nostri Michelangelo e i Raffaello si chiamerebbero Valentino o Armani.

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E la retorica del “made in Italy” include, e parifica, la mozzarella, Caravaggio, la Ferrari e le borse di Prada: potremmo chiamarla la “dottrina Eataly”, visto che alcuni sommi capolavori dei nostri musei sono ora appesi in uno spazio annesso al supermercato di Oscar Farinetti all’Expo.

 

Se questo è il comune sentire, ha senso che sia un’istituzione culturale ad affermare che tra un marmo di Bernini e una maglia di Alaïa non ci sarebbe differenza? E il punto non è se la moda sia, o non sia, arte. Messa così, è una delle domande (avrebbe detto Giuliano Briganti) suggerite dal Grande Metafisico: il diavolo, amico delle verità astratte ed assolute.

 

La risposta, al contrario, non può che venire dalla relatività concreta della storia, con i suoi tempi lunghi e la sua capacità di liberarci dalle pressioni e dalle vanità del presente. E la risposta della storia occidentale alla domanda “cosa è arte?” non è un trattato filosofico, ma un luogo fisico: il museo. È un’anomalia recente che gli artisti lavorino direttamente (e purtroppo quasi esclusivamente) per i musei: è invece sempre stata una decantazione secolare, la riflessione di molte generazioni, a stabilire cosa merita di essere conservato nei luoghi consacrati alle Muse.

elsa martinelli azzedine alaia elsa martinelli azzedine alaia

 

Negli anni venti del Seicento il cardinale Scipione Borghese collocò nella propria villa alcune statue del giovane Bernini: ma se esse sono ancora lì, se quella villa è diventata un museo, è grazie al consenso con cui i secoli successivi hanno vagliato l’intuizione di Scipione.

 

Ebbene, ha senso che noi usiamo questo museo, perfetto e delicatissimo, per proclamare (come in un contatto tra reliquie) l’”artisticità” di alcuni abiti prodotti pochi anni, o pochi mesi, fa?

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Affermare che quella di Alaïa è arte allo stesso modo di quella di Bernini o Canova (questo il messaggio: che scaturisce da ognuno degli accostamenti della Borghese, e che è stato subito recepito dai media) giova davvero alla nostra comprensione dell’arte del passato, e della moda del presente?

 

La mostra che la Francia ha dedicato ad Alaïa non si è tenuta al Louvre, ma al Palais de Galliera, cioè nel mirabile museo della moda (qualcosa che, sia detto per inciso, in Italia non siamo stati capaci di creare).

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A New York i suoi abiti sono stati esposti non al Metropolitan, ma in un museo della contemporaneità come il Guggenheim. Se, invece, in Italia li portiamo alla Borghese è per una duplice incapacità: non sappiamo più come usare il nostro patrimonio culturale, e non riusciamo ancora a costruire veri luoghi del contemporaneo (il fallimento del Maxxi è solo una tra mille prove).

anna coliva azzedine alaia mark wilson carla sozzani anna coliva azzedine alaia mark wilson carla sozzani

 

In un’epoca come la nostra, attratta solo dalla propria immagine riflessa, e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news, l’arte del passato può essere un antidoto vitale. Il rapporto con quello che abbiamo ( lentamente) deciso di considerare “arte” ci libera dalla dittatura narcisistica del presente, ci permette di mettere la nostra vita in proporzione, le nostre passioni in prospettiva.

 

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Ma se utilizziamo la Galleria Borghese come un amplificatore del presente, e delle sue effimere mode, rischiamo di concludere che Alaia è davvero uguale a Bernini. E, invece, abbiamo un enorme bisogno di distinguerli: per comprenderli, entrambi.

 

 

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