JOSH SMITH AL MATTATOIO – NELL’EX REGNO DELLE CODE ALLA VACCINARA TRASFORMATO IN MUSEO, UN ARTISTA PER CUI LA PITTURA È LA SUA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA, IL SUO APPARATO RESPIRATORIO, LA SUA VITA ORGANICA

In quindici giorni di lavoro Josh Smith è riuscito a riempire le pareti dei due immensi padiglioni in un attacco di horror vacui che ha consumato puntine e carte. Una di quelle prove titaniche, istintive, bulimiche che lo collocano filiera di artisti “bigger than painting” come furono Warhol, Haring o Basquiat….

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Dal blog di Alessandra Mammì per http://mammi.blogautore.espresso.repubblica.it/ espresso.it

 

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Mille puntine. Seicento viti. Cento trenta disegni. Cento quaranta opere. Dieci casse da trasporto in legno. Due film. A voi, invece, contare quante volte compare il nome Josh Smith in cubitali e policromi caratteri tra l’uno e l’altro padiglione del Macro di Testaccio.

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Il comunale museo che ha trovato casa nell’ex mattatoio. 

 

Un tempo luogo funereo, ma che non ha mai cessato di essere tale. Il fascino che emanano i vecchi edifici di archeologia industriale in mattoni e tegole di cotto, qui è avvolto da un velo lugubre stampato anche sugli stabilimenti dove ancora si legge Pelanda dei Maiali, Vitellara….

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Fa impressione anche a noi carnivori romani che nei secoli ci siam nutriti dei resti della carne nobile inventando Pajate, Coratelle e Code alla Vaccinara. Immaginiamo l’impatto su un americano vegano, nato nel 1976 in Giappone nella base di Okinawa, cresciuto in Tennessee e ora di stanza a New York.

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Del resto lo dice chiaramente nel piccolo catalogo:«il fatto che qui fossero uccisi animali mi disturba. Riesco a percepire la confusione, il terrore, il dolore che gli animali hanno provato in questo luogo. Mi piacerebbe portarci la vita…»

 

Ha scatenato un’energia mitologica, se in quindici giorni di lavoro Josh Smith è riuscito a riempire le pareti dei due immensi padiglioni in un attacco di horror vacui che ha consumato puntine e carte. Una di quelle prove titaniche, istintive, bulimiche che lo collocano -come scrive il curatore di tanta impresa Ludovico Pratesi- nella filiera di artisti “bigger than painting” come furono Warhol, Haring o Basquiat.

 

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Artisti che non tanto pensano in pittura ma per cui la pittura è la loro circolazione sanguigna, il loro apparato respiratorio la loro vita organica.

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Tutto è pittura. Il suo nome spennellato a grandi caratteri produce decine di “Name Paintings”. La pulitura di un pennello sulla carta genera  una serie di opere  battezzate “Palette Paintings”. Gli inviti e le locandine pubblicate o ricevute sono il supporto degli “Announcement Paintings”. Le foto dei suoi lavori precedenti tagliate e ricolorate sono i “Collage Paintings”. E persino le casse con cui le opere sono arrivate fin qui, vengono ridipinte e nobilitate a livello di scultura.

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Battito accelerato  e si mette in scena lo tsunami dei colori con una capacità di controllo imprevista ed eccezionale. Non c’è caos.

 

Ma quell’ordine e disordine che regola le tempeste di madre natura. «Sto sempre cercando di tirar fuori qualche senso dalla confusione; gli impulsi che sento sono veramente reali. Combatto tutto questo e a un certo punto arriva il momento di fare dell’arte …” ipse dixit.

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Vedere per credere. E prendere tutto il tempo che serve per immergersi in questa onda. Josh ha ironicamente sparso per tutta la mostra un centinaio di sgabelli da bar così da potersi sedere e contemplare quello che lui apparentemente ha fatto in un attimo. Ma, come diceva Picasso, un attimo più molti anni e i molti attimi dei maestri che gli hanno aperto la strada da Jim Dine a Cy Twombly, da Robert Rauschenberg  a Andy Warhol , da Chistopher Wool a Martin Kippenberger  e tutti i sublimi bulimici del segno&colore.

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