Ellen Vrana per “Medium”
La Street Art è entrata nel mercato dell’arte e i “vandali” di un tempo si sono trasformati in rockstar. Le loro opere ormai vengono pagate fior di quattrini. E’ passata da subcultura anti-sistema a forma artistica foraggiata dal sistema.
Conor Harrington scappava dalla polizia, faceva infuriare i proprietari delle case e il comune che doveva sborsare soldi per cancellare i suoi graffiti dai muri di Dublino. Oggi fa mostre a Londra e ogni sua opera sugli imperi che crollano viene comprata a non meno di 84.000 euro.
Gli street artist hanno creato una grande “fan base” diffondendo le foto delle opere sui social media. L’anno scorso le loro opere hanno generato oltre 350 milioni di euro e ci si aspetta che nel 2015 il giro d’affari aumenti. A comprarle sono persone che in precedenza non erano interessate all’arte e anche persone dell’ambiente che cominciano a ritenere questi nomi investimenti credibili. I graffitari di serie A potrebbero diventare i prossimi Keith Haring e Jean-Michel Basquiat.
Una mano l’ha data la gentrificazione urbana. Gli artisti hanno dipinto i muri delle zone peggiori e le hanno rese destinazioni turistiche. Come dice il gallerista Charley Uzzell-Edwards, ex graffitaro noto come “Pure Evil”: «La Street Art è il primo vero movimento artistico globale. Se qualcuno crea un pezzo a Panama, il giorno dopo ne parlano dall’altro capo del pianeta». L’artista Zabou ha messo la sua prima opera on line ed è subito stata contattata da un collezionista di Miami che le ha ordinato cinque tele. Ultimamente ha incontrato una persona che, dopo aver visto un suo lavoro on line, se lo è tatuato addosso.
Spesso gli artisti come Conor Harrington continuano a fare raid sui muri. Per divertimento e per investimento. I nuovi murales trovano subito spazio sui social e attirano l’attenzione mondiale. Nascono gli “street art tour”, visite guidate a Shoreditch, Brooklyn, nel quartiere Kreuzberg a Berlino, Raval a Barcelona, Oberkampf a Parigi.
Il mondo tradizionale dell’arte ci ha messo un po’ ad adattarsi al potere del web nel propagare nuovi artisti. I galleristi hanno guardato con ammirazione questi ragazzi che si sono costruiti da soli fama, reputazione, e quotazioni. Dice Steve Lazarides, agente e gallerista di Banksy: «I collezionisti miliardari hanno cominciato a contattarci e ora lo mettono accanto ai loro Picasso e Rembrandt».
Il vantaggio è che gli street artist hanno più controllo sulla loro identità pubblica, possono scegliere come e dove vendere. Ad esempio Roa, che fa enormi “stencil” di animali, si assicura che i mercanti d’arte non comprino i suoi lavori per poi rivenderli. Nonostante certe resistenze, comunque è passata l’idea che va bene commercializzare e fare soldi. L’importante è il modo in cui si fa. Così in tanti hanno seguito il modello Banksy, vendendo stampe a go go.
Va forte la sensibilità pop legata alla semplicità e a un tocco di ribellione. Gli artisti riescono a mantenere questo folclore, sfruttando però il lavoro a livello commerciale. Invader è il francese che dagli anni Novanta fa mosaici ispirati a vecchi videogame. Ha pixelato oltre 60 città, con uno stile immediatamente riconoscibile. Ha creato app per “iPhone” e stampe di tutti i tipi. Una sua riproduzione è valsa 350.000 euro.
Il picco della commercializzazione della street art è stato toccato da Shepard Fairey, l’uomo dietro il poster “Hope” di Barack Obama. Prima ancora aveva ideato la linea di abbigliamento multimilionaria “Obey”.
Il londinese Ben Eine, famoso per le lettere psichedeliche, ha accettato una redditizia commissione da “Virgin Atlantic”. “Microsoft”, “Converse” e “Nike” hanno usato street art e artisti nelle loro pubblicità. Qualcuno non è a proprio agio e vede in queste collaborazioni una minaccia allo spirito controculturale che animava il settore. Altri come Lazardies rispondono: «Non c’è vergogna a fare soldi. Se questi artisti non li facessero, gli unici a produrre arte sarebbe i figli dei ricchi e famosi».
Siamo passati dal vandalismo alla beatificazione nel giro di qualche anno. Secondo molti la street art è morta. Non riguarda più una comunità che opera fuori dalla legge. E’ una forma legittimata, sterilizzata e riconfezionata per i consumatori. E’ un’altra vittima del moderno e vorace appetito per la “Next Big Thing”, qualcosa da scoprire, feticizzare e bruciare. Dall’altra parte però l’arte ha guadagnato un nuovo pubblico.