Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera”
La questione dei tamponi, per la ricerca del nuovo coronavirus, è un po' un pasticcio, il parere degli esperti non è univoco e, poi, ci si mette di mezzo la politica.
A questo punto è opportuno fare qualche precisazione, ma soprattutto dare un' occhiata al futuro, vedere quali sono i nuovi test in arrivo, come possono aiutare a comprendere meglio l' epidemia e a stimolare la ricerca di nuove soluzioni. Lo facciamo con Roberto Burioni, professore di Microbiologia e virologia all' Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.
«Il tampone, attualmente usato per intercettare la presenza del virus nel naso e nella gola, è molto affidabile e preciso. Però - spiega Burioni - ormai non ha molto significato in chi ha sintomi respiratori e per di più ha una polmonite che si può facilmente vedere con una lastra ai polmoni. Finita la circolazione del virus influenzale, questa condizione è praticamente solo da coronavirus».
E il tampone non potrebbe nemmeno essere utile in chi ha sintomi lievi: «Queste persone devono, in ogni caso, stare a casa. Così pure i loro contatti. È invece indicato per capire chi è veramente guarito - dice Burioni -. Per parlare di guarigione occorre che due tamponi, eseguiti a distanza di uno o due giorni, risultino negativi».
Questi dati, se raccolti in maniera organica, potrebbero aiutare i ricercatori a studiare, alla fine dell' emergenza, molti aspetti che riguardano la diffusione di questa pandemia. Ma potrebbe farlo ancora di più un altro test: la ricerca di anticorpi anti-coronavirus nel sangue.
Questi anticorpi rappresentano il segnale della risposta immunitaria dell' organismo al virus. Per due o tre motivi questa indagine è importante.
«Punto primo: permette di valutare quante persone sono venute, davvero, in contatto con il virus e si sono difese, anche senza sintomi - precisa Burioni -. Punto secondo, il più importante da valutare nel tempo: dobbiamo capire se queste persone, che hanno sviluppato anticorpi, saranno protette, cioè hanno sviluppato un' immunità, nei confronti di una successiva esposizione al coronavirus».
Se la risposta è sì, potremmo mandare «sul campo» (nell' eventualità di una seconda ondata di contagio) queste persone, medici e sanitari, ad affrontare l' epidemia con rischi praticamente zero. E la popolazione «protetta», in generale, potrebbe stare tranquilla.
Se è no, c' è un problema.
Vuol dire che gli anticorpi sviluppati contro l' infezione non proteggono. E allora sarebbe un guaio per la messa a punto di un vaccino. Perché non sarebbe in grado di stimolare una difesa immunitaria protettiva dell' organismo. E il laboratorio di Burioni al San Raffaele ha già programmato protocolli di ricerca su questo tema.
Poi c' è l' idea di sviluppare test rapidi per la diagnosi di infezione (ma non si parla di test disponibili in farmacia!).
«Tutti questi test, utili per identificare i potenziali diffusori del virus (magari asintomatici) - conclude Burioni - devono poi essere confrontati con i dati (i Big Data) che ci arrivano dalla tecnologia digitale». In altre parole: attraverso i social, i tracciamenti su Internet, eccetera, eccetera (uniti alla classica ricerca scientifica) noi potremo capire come questa epidemia si sta diffondendo. E studiare nuove armi, per arginare questo virus.