Paolo Colonnello per la Stampa
Ampiamente annunciata, la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione internazionale depositata ieri dalla Procura della Repubblica nei confronti dell' attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, dell' ex presidente Paolo Scaroni e di vari manager e mediatori, oltreché di due società (la stessa Eni e la Shell), colpisce come una tegola il vertice del gigante petrolifero a poco più di due mesi dal rinnovo delle cariche da parte del Governo.
Non a caso il Cda dell' azienda esprime solidarietà a Descalzi e «massima fiducia» sulla estraneità di Eni alle accuse nonché verso la magistratura che ne ha chiesto il processo. La richiesta della Procura, segnatamente del pm Fabio De Pasquale, deve infatti ancora passare al vaglio del gip e, successivamente, affrontare un tribunale.
Dunque, Eni ha fiducia che le accuse si possano dimostrare inconsistenti. La difesa del colosso petrolifero, si dice convinta, «sulla base di approfondite analisi legali ad oggi effettuate», dell' estraneità delle asserite condotte corruttive contestate. Che riguardano, stando alle carte dei pm, una delle più colossali tangenti mai pagate nella storia degli affari petroliferi: 1 miliardo e 300 milioni di dollari.
Una montagna di quattrini che sarebbero stati versati a esponenti dell' ex governo nigeriano in buona parte da Eni (1,092 miliardi) e da Shell (200 milioni), ugualmente indagata, per ottenere i diritti di sfruttamento petrolifero del giacimento Opl245 senza gare internazionali. La vicenda risale al 2010, e in quell' epoca Descalzi ricopriva il ruolo di direttore generale della Divisione Exploration & Production di Eni: per il pm, partecipò in prima persona alle trattative con Emeka Obi, emissario del governo e in particolare dell' allora ministro nigeriano Dan Etete, con cui Descalzi si sarebbe incontrato a Milano nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre 2010, «per la definizione delle questioni riguardanti le commissioni».
Etete, destinatario di una mazzetta calcolata in 250 milioni di dollari, titolare della società Malabu Oil, viene definito nelle carte dei pm, come il «titolare con mezzi fraudolenti fin dal 1998 della licenza di esplorazione» del sito petrolifero: buona parte dei suoi soldi, per altro, sarebbero finiti in beni di lusso, auto blindate e in non pochi armamenti. Altri 520 milioni avrebbero reso ricco l' ex presidente Jonathan Goodluck e diversi membri del governo, tra cui l' Attorney general Cristopher Bajo Oyo per il suo ruolo di «advisor».
All' Ad di Eni, viene anche contestato di aver seguito le indicazioni di uno dei «mediatori» dell' affare, l' onnipresente Luigi Bisignani, che avrebbe fornito «consigli» «sui comportamenti da tenere nella trattativa». Bisignani, d' altro canto, non ha mai negato il suo ruolo di mediatore, lamentando di non essere mai stato pagato.
La campana della difesa di Descalzi, suona una musica diametralmente opposta, rivendicando anzi che l' allora Direttore generale della divisione E&P di Eni fece slittare addirittura di un anno la stipula dell' accordo proprio perché aveva notato poca trasparenza nella compagine della società di Dan Etete, insistendo piuttosto che intervenisse un accordo diretto col governo nigeriano.
Quanto al ruolo di Bisignani, sarebbe stato quello di persona interessata ad avere informazioni sull' esito della trattativa, con scarso successo. Infine, nota la difesa rappresentata dall' avvocato ed ex Guardasigilli, Paola Severino, Descalzi non risulta in nessuna carta avere mai avuto alcun ruolo o coinvolgimento nelle dazioni di denaro.