“COM’ERA IL PIRATA PRIMA DI MORIRE? IL MARCO CON CUI HO PARLATO QUELLA SERA NON AVEVA LA FACCIA DI UNO CHE VOLESSE SUICIDARSI” –PARLA IL RISTORATORE CHE GLI HA PORTATO IN STANZA L’ULTIMA CENA
Francesco Alberti per “Il Corriere della Sera”
SCRITTE IN RICORDO DI MARCO PANTANI
Ancora adesso, dieci anni dopo, un pezzo d’anima di Oliver Laghi è rimasto davanti a quella stanza, la D5, quinto piano dell’allora residence Le Rose: «Ricordo come ieri il volto di Marco: stanco, le occhiaie profonde, la barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del viaggio e che una bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima di andarmene gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo per un autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla spalla: “Va bene, a domani”...».
MARCO PASTONESI PANTANI ERA UN DIO
Oliver è stato uno degli ultimi a vedere Marco Pantani prima della sua morte la sera di San Valentino del 2004. È l’uomo che gli ha portato in stanza l’ultima cena: «Un’omelette di prosciutto e formaggio». Non sapeva quanto la cocaina avesse ormai mutilato lo spirito e il fisico del Pirata. Anzi, fino a quel venerdì 13 febbraio del 2004, nemmeno sapeva che Pantani alloggiava da alcuni giorni nel residence di viale Regina Elena, a un tiro di schioppo dal suo ristorante, il «Rimini Key», in piazzale Benedetto Croce, con vista sul lungomare.
Oliver, che ha 47 anni e 4 figli, di cui uno è al suo primo anno in bicicletta tra i dilettanti juniores, non ha dimenticato un istante di quell’incontro con Marco, e non solo perché ha dovuto all’epoca riferirne dettagli e sensazioni agli inquirenti, ma «perché mai avrei immaginato che poche ore dopo sarebbe stato trovato morto in quelle condizioni».
Tre, quattro minuti. Tanto durò lo scambio di battute tra Oliver e il Pirata. Quella sera di febbraio 2004, il ristoratore, ricevuta l’ordinazione dall’albergo e saputo che il cliente in questione era niente di meno che il suo idolo di sempre, decise di approfittare dell’occasione: «Mi fermai alla reception dove mi consegnarono alcuni succhi di frutta e mi recai al quinto piano. Bussai e pochi istanti dopo comparve Marco...». Non lo fece entrare. Aprì solo in parte la porta.
«Vedevo bene il suo volto — ricorda Oliver —, ma il resto della stanza no. E poi non mi pareva nemmeno corretto sbirciare. Ricordo di aver pensato: “Se lui che abita a Cesenatico viene qui a Rimini la sera prima di San Valentino, probabilmente è con una donna e non vuole farsi vedere, in ogni caso sono fatti suoi”. A me importava solo poter parlare con lui».
E così fu. Oliver, che da ragazzo ha corso in bicicletta tra i dilettanti «e solo per una differenza di pochi anni non ho mai incrociato Pantani, di poco più giovane di me», si era preparato il discorso: «Gli dissi che l’avevo visto correre qualche mese prima al trofeo “Coppi e Bartali” e che, nonostante lo scarso allenamento, si era difeso benissimo dagli attacchi degli avversari, riuscendo a rimanere tra i primi. Gli dissi di stare su con il morale, che sarebbe tornato quello di una volta e che al Giro d’Italia dell’anno prima aveva fatto la sua figura».
Poi gli domandò di quella volta sull’Alpe d’Huez e di quell’altra sul Galibier («Sai, ero lì a vederti») e prima di lasciarlo gli chiese di poter tornare il giorno dopo con il figlio piccolo («Impazzirebbe di gioia se potesse avere un tuo autografo») e «Marco mi disse “va bene, a domani” e mi diede un colpetto sulla spalla».
In questi dieci anni sono venuti dall’India e dal Giappone per chiedere ad Oliver «com’era il Pirata prima di morire». Anche l’avvocato della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, la cui indagine difensiva ha portato alla riapertura dell’inchiesta per omicidio volontario, è passato nel suo locale: «A tutti ho riferito le sensazioni di quella sera. Una, in particolare: il Marco con cui ho parlato quella sera non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi. Spero che la nuova inchiesta possa portare a qualcosa di concreto e che ridia un pizzico di pace a mamma Tonina e papà Paolo».