LE LORO PRIGIONI - POLICARDO E CALCAGNO RACCONTANO IL LORO SEQUESTRO: “CI HANNO PICCHIATO CON CALCI E PUGNI, A VOLTE CON IL MANICO DEI FUCILI” - NON ERANO NELLE MANI DELL’ISIS MA DI UNA BANDA FONDAMENTALISTA. LO CHOC ALLA SCOPERTA DELLA MORTE DEI DUE COLLEGHI
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Li hanno picchiati, malmenati, minacciati e intimoriti. Al punto di spingerli a implorare i loro carcerieri: «Non ci vendete, non ci uccidete». Ottenendo una risposta rassicurante, per quanto consentisse la situazione: «Non vi vendiamo e non vi uccidiamo. Noi siamo bravi musulmani, non ammazziamo le persone».
È un dettaglio del lungo racconto fatto da Gino Pollicardo e Filippo Calcagno al pubblico ministero della Procura di Roma Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, che per inquirenti e investigatori conferma l' ipotesi più accreditata durante il sequestro: i quattro tecnici italiani rapiti il 19 luglio scorso non erano prigionieri dell' Isis, bensì di una banda fondamentalista che forse voleva proporsi a sostegno dello Stato Islamico.
Ricostruzione avallata anche da un altro particolare svelato dai superstiti: le due prigioni in cui sono stati rinchiusi erano alla periferia di Sabratha, nella zona teoricamente controllata dal cosiddetto «governo di Tripoli» ma con una forte influenza autonoma della municipalità locale, dove agiscono le milizie anti-Califfato che la settimana scorsa hanno intercettato e annientato i banditi. Uccidendo gli altri due ostaggi, Salvatore Failla e Fausto Piano.
Finto posto di blocco
L' analisi dei servizi segreti che hanno lavorato in Libia all' indomani del sequestro sarebbe dunque riscontrata dal resoconto dei protagonisti, caduti nelle mani dei libici oltre sette mesi fa, poco dopo aver attraversato il confine con la Tunisia.
I protocolli di sicurezza prevedevano che lo spostamento verso il centro di Mellitah, dove lavoravano per la ditta Bonatti di Parma, dovesse avvenire via mare o in elicottero, ma all' aeroporto di Gerba i quattro tecnici hanno trovato ad attenderli una macchina con l' autista. «Tutto era stato predisposto dall' azienda», hanno spiegato.
Giunti in Libia, sono stati affiancati da altri veicoli che hanno intimato l' alt, con la scusa di un controllo. Dalle macchine è sceso un gruppo di uomini incappucciati che hanno legato l' autista e portato via gli italiani. Nel primo covo sono rimasti fino a novembre, prima di un rapido trasferimento nella seconda prigione, tutti insieme, dove sono rimasti fino alla scorsa settimana.
A turno hanno subito violenze, con lo scopo di fiaccarli psicologicamente: «Ci hanno picchiato con calci e pugni, a volte con il manico dei fucili. Ci davano da mangiare una volta al giorno e neanche tutti i giorni. Portavano quello che volevano loro, mai carne. Prima di entrare ci dicevano di metterci il cappuccio, sentivamo solo le loro voci.
Non li abbiamo mai visti in faccia. Comunicavamo in francese, loro lo parlavano male, ma riuscivano a farsi capire». La stanza-cella nella quale i prigionieri potevano muoversi, aveva le finestre sbarrate da assi di legno, illuminata dalla luce elettrica al momento del pasto.
Volti sempre coperti
Per andare al bagno i prigionieri dovevano chiamare, coprirsi il volto, farsi aprire la porta, ed essere accompagnati. Stesso modalità per tornare indietro. Dalle finestre chiuse arrivavano comunque dei rumori, qualche macchina, ogni tanto una voce; non un luogo isolato, insomma, come i due superstiti hanno scoperto una volta liberati. Le voci che hanno sentito erano sempre attribuibili a uomini, età imprecisata, quattro o cinque persone diverse. Forse.
Le sole volte in cui hanno avuto l' ordine di togliersi i cappucci sono state quelle in cui i banditi hanno scattato foto o filmato dei video. Da questo gli ostaggi hanno capito che erano in corso trattative: le loro immagini, insieme a qualche frase per declinare le proprie generalità e farsi riconoscere, dovevano essere la prova che a negoziare il rilascio erano effettivamente quelli che li tenevano nascosti.
Foto e video da cui l' intelligence italiana ha avuto la certezza che i connazionali erano insieme, nelle mani di un unico gruppo. I mesi sono trascorsi lenti, tra fame, paura e la flebile speranza affidata alla trattativa. È passato Natale e anche Capodanno, con i quattro a tenere il conto delle date calcolando la successione dei pasti e dalle ore di sonno, che più o meno dovevano corrispondere a una notte.
Un calendario personalizzato che procedeva al passo di quello vero, ma a febbraio gli ostaggi hanno dimenticato che il 2016 è anno bisestile, e dunque febbraio ha 29 giorni. Ecco perché a incubo finito, nel biglietto vergato a mano hanno scritto: «Oggi 5 marzo siamo liberi e stiamo discretamente bene». Invece era il 4 marzo.
«Venite con noi»
A quella data Pollicardo e Calcagno sono arrivati senza conoscere la tragica sorte toccata ai loro colleghi e compagni di disavventura. Li hanno visti fino a mercoledì, il 2 marzo. Quel giorno, all' improvviso, i guardiani hanno fatto irruzione nella stanza, ordinando a Failla e Piano di alzarsi e di seguirli. Senza alcuna spiegazione.
I due rimasti hanno sentito rumori di materiale caricato sui mezzi come se stessero smobilitando il covo. Poi tutti se ne sono andati, lasciandoli nell' angoscia e nell' incertezza. Non è arrivato più nessuno, né per portare da mangiare né per rispondere alle richieste di andare in bagno.
I due superstiti hanno atteso una notte e un giorno, poi ancora una notte, e alle prime luci del 4 marzo hanno deciso di provare a uscire da soli. Forzando la porta, fino a sfondarla, nella consapevolezza acquisita che ormai nella casa-prigione non c' era più nessuno. Usciti fuori ne hanno avuto la conferma, e si sono incamminati verso le case vicine.
Hanno fermato la prima macchina che è passata, chiedendo agli occupanti di accompagnarli al posto di polizia più vicino: la sorprendente risposta è stata che loro stessi erano la polizia, anche se non sembrava. Ma non c' era altro da fare che fidarsi, e così Pollicardo e Calcagno si sono consegnati all' autorità di Sabratha, diventando oggetto di un' altra trattativa, fortunatamente più rapida, fino al rientro in Italia.
L' ipotesi più probabile, sulla base di queste testimonianze, è che i sequestratori stessero organizzando un nuovo trasbordo dei prigionieri, forse in vista del rilascio visto che il negoziato era arrivato a buon punto; trasferendo due ostaggi alla volta, considerato l' aumento dei controlli nella zona.
Particolare che dimostra una volta di più l' esiguità e la scarsa organizzazione del gruppo. I miliziani li hanno visti ed è nato il conflitto a fuoco in cui sono stati uccisi i banditi e i due italiani. Così nessuno è tornato a prendere gli altri due, che hanno potuto liberarsi da soli. Scoprendo soltanto dopo, con l' aiuto degli psicologi inviati da Roma, che i loro amici non c' erano più. Una notizia che ha stemperato nel dolore la felicità per il ritorno alla vita.