LA COLONNA “INFAME” DI GIORGIA MELONI – FRANCESCO MERLO: “QUEL ‘MOLLERÒ PER L’INFAMIA DI POCHI’ NON ISCRIVE LA PREMIER AL CODICE DELLA MALAVITA. LA VERITÀ È CHE DI NUOVO E PER SEMPRE QUESTA INFAMIA CONSEGNA ‘IO SO’ GIORGIA’ ALLA BORGATA DI CUI È LA REGINETTA, AL COATTO-ROMANESCO, CHE È, COME SAPPIAMO, LA SOLA EGEMONIA CULTURALE DEL SUO GOVERNO” – “LE TALPE DELLA MELONI SONO TALPE DA WHATSAPP, UNA FINESTRA SUL CORTILE ITALIA…”
Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica”
Si fa presto a dire infame a Roma, che è Roma capoccia der mondo infame. […] Capisco che possa suonare come un’insolita difesa di Giorgia Meloni, ma quel «mollerò per l’infamia di pochi» non la iscrive al codice della malavita, al linguaggio «dei ladri», come le ha detto Bersani da Lilli Gruber, poi spiegando, questa volta con ragione, che «hanno tentato un furto di democrazia».
[…] Via, queste talpe della Meloni sono talpe da WhatsApp, che non è il buco nella terra dove si infrattavano il Malpassoto e i suoi incappucciati, ma una finestra sul cortile Italia.
La Meloni sa che non si possono affidare i segreti a una “chat”, che vuol dire chiacchiera.
Non si può, mentre si chiacchiera, imporre il “Sssttt!” alla chiacchiera.
E però, in Senato, Matteo Renzi non ha resistito e ha paragonato il WhatsApp infame alla Colonna infame degli untori innocenti straziati a Milano e raccontati dal Manzoni.
La verità è che di nuovo e per sempre questa infamia consegna “io so’ Giorgia” alla borgata di cui è la reginetta, al coatto-romanesco, che è, come sappiamo, la sola egemonia culturale del suo governo.
GIORGIA MELONI SI INCAZZA CON I PARLAMENTARI DI FDI IN CHAT
E dunque infame è un rafforzamento dei te posseno e dei mortacci. E infatti lo sfogo che segue l’accusa di infamia, anche se è scritto, risuona della sua solita lingua strascicata. Insomma, sono infami de’ noantri: «Fare sta vita per far eleggere sta gente, anche no».
Per la verità non solo a Roma è più facile dire chi è un infame di quanto non sia dire che cos’è un infame. È infatti mantovano il duca del Rigoletto al quale basta cantare Bella figlia dell’amore a Maddalena per diventare “l’infame” che fa piangere Gilda.
È però a Roma che la parola è abusata al punto da rendere vaga sino all’insignificanza la spregevolezza dell’infamia. Nun te fidà de ‘sta canaja infame dice il rospo di Trilussa alla gallina, avvertendola che l’ommini / te tireranno er collo / com’hanno fatto ar pollo. Anche la bambina-strega di Alberto Sordi, Marchese del Grillo, è brutta, malefica, stregaccia, zozza e ‘ nfame. E Verdone diventa nfame quando per dabbenaggine, e non per tradimento di cosca, mette nei guai “er principe”, l’attore Mario Brega, che ha la magnifica faccia innocente dell’infamità romanesca.
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