OSCAR DA PRENDERE SUL SERIO – LA VECCHIA HOLLYWOOD SFODERA GLI ARTIGLI E RINGHIA CONTRO IL NEMICO (LE NOVITÀ, LO STREAMING, I SUPEREROI) E SCEGLIE IL FILM D’AUTORE, LOTTA DI CLASSE COMPRESA, DI BONG JOON-HO E LASCIA A CASA SCORSESE E I VECCHI LEONI, PASSATI AL LATO OSCURO DELLO STAR SYSTEM – LA SCONFITTA DI NETFLIX E IL PARADOSSO CHE LA MOSTRA DI VENEZIA PREMI UN CINECOMIC E L’ACADEMY UN FILM D'AUTORE – VIDEO
Gianmaria Tammaro per www.esquire.com
Ricorderemo questa edizione degli Oscar come l’edizione delle prime volte, per il trionfo di Bong Joon-ho, del suo straordinario Parasite, e per la vittoria di Brad Pitt come migliore attore non protagonista. Ma la ricorderemo anche per la sconfitta (abbastanza calcolata e clamorosa) di Netflix, che vince il minimo sindacale: miglior documentario con American Factory degli Obama, e miglior attrice non protagonista con Laura Dern e Marriage Story.
Non vincono niente i vari Noah Baumbach e Martin Scorsese. Non vincono niente i vecchi leoni della settima arte come Al Pacino e Joe Pesci. Quentin Tarantino e la sua Once upon a time in Hollywood si devono accontentare, e si devono accontentare anche Sam Mendes e 1917, prima dati per favoritissimi, poi superati da Joon-ho e dalla commedia dark sud-coreana.
E pensare che tutti li davano per spacciati, questi Oscar: hanno perso l’ennesima occasione, si diceva; sono sempre più bianchi, più tradizionali, più prevedibili. Si sono chiusi, hanno voltato le spalle al mondo; sono ciechi, sono machi, sono stronzi. E invece.
Invece, zitti zitti, hanno preso un film che parla di disparità, di ricchi e di poveri, che potrebbe ambientarsi in qualunque città del mondo, con Gianni Morandi nella colonna sonora (e in giro già si leggono i nostalgici dell’italica virtù dire: c’è anche un po’ d’Italia, in questa vittoria), e l’hanno fatto vincere, stravincere, arraffare tutto l’arraffabile: miglior sceneggiatura originale, miglior film, miglior regista, miglior film internazionale (con buona pace di Pedro Almodovar, che qualcuno aveva già venduto per vincitore).
Alcuni premi, come i migliori effetti speciali a 1917 e non a Avengers: Endgame, lasciano perplessi: sarà che quello non è cinema, ma solo un parco giochi. È anche vero, però, e questo non dovremmo mai dimenticarlo, che i premi di Hollywood, dai Golden Globes fino agli Academy Awards, sono sempre stati un’espressione di politica più che di arte, e di buone relazioni più che di effettive valutazioni.
Vince Joaquin Phoenix in Joker, e sono tutti felici. Vince Renée Zellweger, con Judy, e si tira un sospiro di sollievo. Molti premi tecnici a Ford v Ferrari (e che peccato, anche qui), e un’altra, straordinaria prima volta per Hildur Guðnadóttir, che dopo l’Emmy per la colonna sonora di Chernobyl ha vinto anche il Golden Globe e l’Oscar per quella di Joker: questa sì che è una vera rivoluzione.
Come ha scritto Andrea Minuz, fa quasi sorridere che la Mostra di Venezia abbia premiato un cinecomic con il Leone d’oro e che gli Oscar abbiano scelto come miglior film una pellicola d’autore, potentissima e ricchissima.
jane fonda da' il premio ai produttori di parasite
Ma forse, ecco, tutto si riduce a questo; si riduce alla vecchia Hollywood che sfodera gli artigli e ringhia contro il nemico (le novità, lo streaming, i supereroi), che sceglie una terza via, fortunata di avere alla propria corte un talento come Bong Joon-ho, così apprezzato e applaudito, e che lascia a casa Scorsese, passato al lato oscuro dello star system con The Irishman e Netflix, e che non premia il bravissimo Baumbach preferendogli praticamente chiunque.
Menzione speciale, infine, la merita il buon Taika Waititi, che con il suo Jojo Rabbit, la storia di un bambino nazista che ha per amico immaginario Hilter e che s’innamora, poi, di una ragazza ebrea, ha vinto la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale. Qualcosa si muove, ma è, appunto, solo qualcosa.
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