toru muranishi the naked director

SERIE DA PRENDERE SUL SERIO – “THE NAKED DIRECTOR” RACCONTA LA VITA, I GUAI E IL SESSO DI TORU MURANISHI, REGISTA, ATTORE E PRODUTTORE DI PORNO GIAPPONESE. LA SUA STORIA COMINCIA NEGLI ANNI ’80, QUANDO ERA UN RIVENDITORE DI ENCICLOPEDIE E SUA MOGLIE LO TRADIVA. POI NEGLI ANNI ’90 SCOPRE IL SESSO E DIVENTA “L’IMPERATORE DEL PORNO” – PRIMA DI LUI IN GIAPPONE IL SESSO SU CARTA E IN VHS ERA FINTO E PATINATO. DOPO… – VIDEO + FOTOGALLERY BOMBASTICA

 

Gianmaria Tammaro per Dagospia

 

i porno di toru muranishi 24

Dall’8 agosto, su Netflix, è disponibile “The naked director”, serie in 8 puntate che racconta la vita, i guai e il sesso di Toru Muranishi, regista, attore e produttore di porno giapponese. La sua storia, come le migliori storie, è fatta d’alti e bassi: comincia intorno agli anni ’80, quando era un rivenditore di enciclopedie di inglese, quando viveva ancora con sua madre, e sua moglie, insoddisfatta sessualmente, lo tradiva; e poi va avanti, fino al boom culturale ed economico del Giappone, fino all’inizio degli anni ’90.

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Muranishi, come molti altri giapponesi, era costretto in una cappa di censura e di privazioni, e il sesso, quello su carta, di cui fu uno dei principali sostenitori e editori, e quello in VHS, erano finti, macchinosi, disgustosamente patinati. Il governo combatteva una guerra senza quartiere contro i criminali, la Yakuza continuava a guadagnare potere, e Muranishi era una banderuola, costretto tra due fuochi, in eterna lotta con i suoi rivali.

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Alla fine, dice l’altra Storia, quella con la maiuscola, è diventato “l’imperatore del porno” (o il più grande pervertito di tutti, come dice qualcun altro), e i suoi video hanno cambiato la cultura pornografica giapponese: il suo stile, quasi documentaristico, dove lui spesso si divideva tra recitazione, riprese e regia, era riuscito a scuotere i giapponesi, e a imporsi in un mercato dove il sesso, anche in un porno hard-core, veniva ancora simulato.

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La serie di Netflix chiaramente gioca con i toni della commedia e del dramma, e rispetta pienamente quella che è la tradizione giapponese. Takayuki Yamada, che interpreta Muranishi, si divide tra scene terribilmente assurde e surreali, e scene più complicate. La vita di Muranishi diventa una parabola: il sogno americano di un giapponese, che impara a vendere, a vendersi, a parlare, che riesce a superare un matrimonio fallito, che si reinventa pornografo, che stampa e pensa riviste osé, e che crede d’essere un genio, un rivoluzionario.

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Il fatto è che nel Giappone degli anni ’80 il sesso era un affare da milioni e milioni di yen, e quindi erano più quelli che volevano farne parte, legalmente e illegalmente, vedendo video con e senza censura (pixel, macchie bianche, eccetera), di quelli che se ne tenevano alla larga. E in questo “The naked director” riesce a cogliere il senso, e la doppiezza, della cultura giapponese: uomini repressi, sessualità ancora viste come un tabù; donne che vengono schiacciate dal sessismo, e che trovano nel porno – almeno: che trovano in un certo tipo di porno – un modo per essere sé stesse.

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È su questa chiave di lettura, un po’ favola, un po’ esagerata, farcita di tanto sesso, a volte anche spinto, che si concentra la serie; e anche se alcune parti – alcuni episodi, in realtà – vengono fuori pasticciati, finti, e orribilmente innaturali, riesce a conservare una vena d’onestà, e di erotismo. Perché è anche di questo, poi, che parla di “The naked director”: erotismo, sesso, violenza, fantasia erotiche. Mostra, scopre, ammicca. Culi, capezzoli, seni piccoli e sodi, e il fanatismo patetico di certi sessuomani.

 

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Le avventure di Muranishi, spesso, coincidono con donne, incontri leggendari, e un’idea da rivenditore ambulante di piacere: molto fumo, poco arrosto. Come ha già fatto altre volte, Netflix s’affida a un’industria e non prova a cambiarla; e finisce così che questa serie, nella sua resa, rimane profondamente giapponese. Perché prima di tutto si rivolge agli abbonati del Giappone, e poi, solo poi, al resto del mondo.

 

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La storia viene romanzata e semplificata fino all’estremo in alcuni passaggi, e va bene anche così, visto che poi riesce a farsi assurdamente sanguigna, appassionata ed eccitante. Le incursioni di “americanismo” ci sono, e sono pure tante; ma sono le stesse che ci furono in quegli anni in Giappone, dove le influenze che venivano dall’estero, dall’Occidente soprattutto, portarono a un’apertura verso la sessualità, e verso la musica, la cultura e il futuro.

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