IL NUOVO SOGNO SEXY D'AMERICA - RITRATTO DI AMY ADAMS, L'ATTRICE CANDIDATA ALL'OSCAR PER "AMERICAN HUSTLE", DA VICENZA FINO ALLA VITTORIA DEL GOLDEN GLOBE
Malcom Pagani per il "Fatto quotidiano"
Quanto sei bella Amy quando è sera. E nel buio della sala, turbati, gli occhi non si staccano dal suo danzare. Si chiama Adams. Fa l'attrice. Nel suo ultimo film stordisce, promette e non mantiene. Piange e ride. Inganna e confonde, anche nella doppiezza. Compagna, madre, moglie, amante, criminale. American Hustle è lei. L'innocua seduzione che le scopre la schiena, affratella e invita all'improvviso mancamento ottuagenari, giovani e guardoni. Il lampo erotico che utilizza il diniego e l'ironia per farsi strada. Gli occhi smarriti di una fragilità che è pronta a trasformarsi in senso del possesso. In cattiveria.
Delle molte maschere di Amy Adams, americana cresciuta tra berretti verdi e fratelli sulla direttrice Vicenza-Aviano-Castle Rock, l'unica che non abbia bisogno di essere indossata è il talento. Viaggia da solo, ostinatamente, da una ventina d'anni. Il padre Richard, militare di stanza in Italia che veste calzini stravaganti e per diletto scrive canzoni e copioni per un teatro dall'orizzonte casalingo, sposta quello familiare in Colorado quando Amy è solo una bambina. Alla vena artistica, il soldato Richard sovrappone quella religiosa. Sotto il segno dei mormoni, con sei fratelli, Amy si mette in marcia.
Dei primi anni confessa qualche porta sbattuta sull'ambizione e una perversa nostalgia italiana: "Sognavo di tornare ad Aviano tutte le notti". Se si incappa in Occidente di Corso Salani, girato in loco in un'atmosfera cara a Cormac Mc-Carthy, domandarsi se la dichiarazione non sia solo un'altra buona recita di Amy è lecito. Poi si scopre che Amy Adams ha chiamato la figlia Aviana e si intuisce come gli strappi improvvisi lascino sempre un debito da estinguere.
Quello di Amy ha a che fare con l'aspetto. Ai provini si presenta ligia. Ma spiazza. E come in Tootsie, le indicano sempre la via di uscita: "Troppo alta o troppo bassa, giovane o vecchia, bionda o non sufficientemente mora". Dopo anni sul tartan con il sogno di emulare Marlene Ottey, Amy molla l'atletica per il balletto. Non ha un dollaro, lavora da cameriera, in un mall per la catena Gap e al Country Playhouse di Denver dove incontra un produttore, Micheal Nelson che nel 1999 la trascina in Minnesota scritturandola per Bella da morire.
à il momento di volare a Los Angeles, farsi aiutare da un antico parente, conoscere Darren Le Gallo e ottenere nel 2000 una parte in Cruel Intentions che a cascata, ne farà piovere altre. Oggi, dopo averlo già sfiorato, Amy è candidata all'Oscar. Ha vinto il Golden Globe dimenticandosi di quando chiedeva incredula agli amici se fosse capitato, almeno una volta nella lunga storia di Hollywood, che un'attrice chiamata a prendere un onore fosse svenuta o peggio un istante prima di riceverlo.
Le capito un'emozione non dissimile quando la chiamò Spielberg per Prova a prendermi con DiCaprio, in un copione "guardie e ladri" che per certi versi ricorda American Hustle. Una sapiente costruzione meno libera ed eversiva dell'ultima fatica di Martin Scorsese, illuminata però dalla prova sontuosa degli attori.
La strepitosa Jennifer Lawrence e Amy Adams che avevamo già applaudito in Her di Spike Jonze e andando all'altro ieri, nel bellissimo The Master di Paul Thomas Anderson in cui con il compagno di scorribande Philip Seymour Hoffman (tre film insieme di piena, assoluta, soddisfazione reciproca: "Con certi attori capita qualcosa e si scatena una chimica di fondo, con lui accade sempre") divideva un talamo inquietante.
Ai tempi in cui le cose non andavano troppo bene, sorpresa dal silenzio seguito all'exploit con Spielberg, Amy Adams si convinse a interpretare un ruolo difficile e sofferto in un piccolo film indipendente girato in ventun giorni in North Carolina. Si intitolava Junebug e le cambiò la vita.
Che per il resto, tra un ruolo per l'amica perduta Nora Ephron: "Mi manca moltissimo" e uno per Mike Nichols resta quella di una persona che soffre di claustrofobia, si confronta con la fama come se ogni copertina fosse un incidente del destino, ama il cibo messicano, divide il tetto con due cani (Pippy e Sadie, ogni patria ha i suoi Dudù) e la mattina va in palestra con una magliettaccia grigia.
Abituata a non mollare: "Non posso parlare della mia religione, ma di sicuro a contatto con i Mormoni ho introiettato il senso delle regole", richiesta ora da chiunque, altarino vivente dello splendore irraggiungibile, a trentanove anni, giocando di sponda sul desiderio inconfessabile, le smorfie, la grande bellezza di inchiodare chi ti osserva a un sorriso, a una lacrima, al miracoloso declinare, mutante e indefinito, chiamato abilità .
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