1. ADDIO A MARIO PROTO, IL REPORTER DI VIA FANI. IL RICORDO DI RINO BARILLARI
Rino Barillari per ''Leggo''
Quattro secondi in meno. Sono quelli che fanno di un fotografo un grande fotografo. Proprio come un pilota di Formula Uno lo scatto della vita è in quei quattro secondi. Mario Proto aveva esattamente questo in più degli altri: riuscire a capire prima come e quando scattare. Batteva tutti: quando c'era un omicidio lui era lì. Ha seguito la strage di via Fani e la tragedia di Alfredino. Sempre con la stessa professionalità e le sue foto erano perfette.
Lo ha fregato questo male infame che ti prende alle spalle senza farsi vedere. Questo covid che sta spegnendo la nostra voglia di vivere, di incontrarsi di stare insieme. Io e lui ci incontravamo spesso, nelle notti romane... a caccia. Quelle notti mondane che lo stesso virus sta uccidendo. Ci eravamo promessi, come ogni di incontrarci a capodanno in questura per il primo caffè insieme. Per scherzare e prendere la vita un po' per il culo. Quel caffè non sarà più lo stesso senza Mario. E quei quattro secondi li porto nel cuore.
2. ROMA, MORTO DI COVID MARIO PROTO, STORICO FOTOREPORTER DI CRONACA NERA PER IL «CORRIERE DELLA SERA»
Rinaldo Frignani per il ''Corriere della Sera''
«Signora, per favore, una foto di sua figlia. Per ricordarla così com’era, per non pubblicare lo scempio». Nessuno pensava ci fosse speranza, invece bastarono quelle parole appena sussurrate in fondo a una scala per scalfire il dolore e la rabbia di una madre che aveva perso la sua ragazza nel rogo di un’auto finita fuori strada. Parole che Mario Proto continuava a pronunciare anche oggi, dopo anni, con garbo e gentilezza, per dare più corpo a una testimonianza, fino a far diventare aneddoti fra i suoi colleghi quello che per lui era normalità. Un fotoreporter testardo e spesso incontentabile, sorridente e ironico. Buono e perbene.
Una bandiera per il giornalismo romano, e non solo. Una presenza storica nella famiglia del Corriere della Sera, che con lui piange la prima vittima di Covid: a 67 anni e dopo tre settimane di inutile lotta in terapia intensiva al Policlinico Gemelli, Proto se n’è andato ieri mattina. Fino all’ultimo, prima di sentirsi male, aveva raccontato la seconda ondata e gli assembramenti in centro, ormai subentrati da mesi — sempre di più — alla cronaca nera. Poi l’abbassamento di voce, l’affanno, eppure sembrava che potesse recuperare: non aveva tosse, né febbre, il saturimetro era fisso a 97. E invece, ai lievi miglioramenti sono seguiti profondi peggioramenti, fino a quella sentenza che all’inizio nessuno immaginava.
«Per me l’obiettivo della macchina fotografica è come uno schermo che mi protegge dalle cose più brutte. Solo lì dietro riesco a rimanere freddo, a concentrarmi solo su quello che sto facendo. Altrimenti non ci riuscirei». Mario Proto lo ripeteva spesso. Lo aveva provato sulla sua pelle per la prima volta il 16 marzo 1978 quando si precipitò inseguendo con la sua auto le volanti della polizia che correvano verso via Fani. Fu tra i primi fotoreporter ad arrivare davanti alle vetture della scorta di Aldo Moro crivellate di proiettili.
Lui quei carabinieri e quei poliziotti massacrati dalle Br li conosceva tutti. Li incrociava spesso per lavoro, e quella mattina Mario fece il suo lavoro: alzò la Nikon e scattò immagini che hanno fatto epoca, testimoniando l’orrore di quegli anni.
mario proto accanto a enrico berlinguer
Morto Mario Proto, da Moro al «canaro» e Alfredino: le immagini di 40 anni di storia criminale
Il sorriso e la macchina fotografica sempre al collo
Nell’Italia di prima del Covid Proto è stato soprattutto un protagonista della nera: suoi i primi scatti, appunto, in via Fani , suoi quelli dell’arresto di Maurizio Abbatino — boss pentito della Banda della Magliana — e Renato Vallanzasca (con stampelle), suoi quelli dei disperati tentativi di salvare Alfredino Rampi a Vermicino. E poi una trafila infinita di omicidi, rapine, regolamenti di conti, faide mafiose che hanno insanguinato Roma solo fino a pochi mesi fa. Soppiantati dal lockdown di primavera, dalle strade vuote e buie.
«La prima cosa di papà che mi viene in mente? — ricorda il figlio maggiore Andrea, distrutto dal dolore come il fratello Gianluigi e la madre Gianna —. Tornava a casa, si metteva a tavola, si rialzava dopo un secondo: era successa un’altra cosa e lui doveva scappare».
E così, dal 1973 a oggi, Proto ha collezionato scoop, testimone di una metropoli di oltre 5 milioni di persone che non finisce mai di sorprendere e far soffrire: il Canaro, via Poma, l’Olgiata, Marta Russo. la Banda della Magliana, appunto, il terrorismo rosso e nero. Le violenze sulle donne e sui minori, i piccoli fatti di malavita di quartiere, gli affronti razzisti, le tragedie sulla strada. Il crollo del palazzo in via di Vigna Jacobini, la strage di via Ventotene, fino all’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, al delitto di Luca Sacchi. Alle Mura Vaticane, nel suo studio, è tutto racchiuso in un gigantesco archivio fatto di pellicola in negativo e foto masterizzate.
C’è anche Alì Agca, l’attentatore del Papa, sorpreso in un corridoio in Questura dopo essere stato arrestato. Devoto proprio a Wojtyla, Proto aveva scoperto che ogni Epifania il pontefice si recava in visita al Presepe del Netturbino, dietro San Pietro. Lo sapevano in pochi, ma fra loro c’era lui, orgoglioso ogni volta solo di stringergli la mano. Senza foto, per non rovinare nulla. Senza dirlo a nessuno. Proto era così. Umano, ma anche duro quando necessario, al punto di bloccare sul nascere qualsiasi tentativo di aggressione, ai quali purtroppo fotografi e cameramen sono abituati. Mai in fuga, semmai all’attacco, fra le strade di Primavalle come sul cemento di Tor Bella Monaca. Una presenza fissa dalla quale sono nate amicizie sempre più profonde con poliziotti, carabinieri, questori, prefetti (qualche anno fa ha dedicato una mostra con i suoi scatti a Nicola Calipari), rapporti che vanno oltre il lavoro. Anzi, spesso il lavoro restava fuori.
foto mario proto andreotti in barella
Una stima reciproca testimoniata ieri da numerosi messaggi di affetto. Il segno che un’epoca non è passata invano, anche se per Mario, insofferente a restare dietro le transenne oggi onnipresenti sui fattacci di nera, «quel mondo è finito, non tornerà più indietro».
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