1. VIRGINIA WOOLF CARISSIMO, SONO CERTA DI STARE IMPAZZENDO DI NUOVO
Lettera di Virginia Woolf al marito pubblicata da "il Giornale"
Carissimo,
sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi.
Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere.
So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu.
Tutto se n' è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.
2. NO, SARÒ SOLO SPETTATORE DELLA TUA ASSENZA
Pietrangelo Buttafuoco per "il Giornale"
E cosa posso essere io, adesso, lo spettatore della tua assenza? Come posso, Virginia, mia adorata, applaudire il tuo capolavoro: forse seguendo il tuo sudario, incamminandomi nella plaga di buio e acqua del mare e cercarti nel nulla? Lo strazio cui mi destini è il trionfo della tua esistenza.
C'ero anch'io nella tua vita ma per essere solo un dettaglio, il souvenir di una gita, una conchiglia da appoggiare sul tavolino, nulla di più, altrimenti io e te saremmo adesso carne su carne, avremmo addosso quel qualcosa di me e di te, di noi, di tutti e due ciecamente felici per rinnovare la gioia e non per morire.
Tu, amore mio, accudita da una tomba. Io, invece, vivo. Stupidamente vivo. Sono solo un pettegolezzo e non ho neppure il conforto dell' oblio.Tutto ti ha abbandonato, mi dici, amore mio. Tutto eccetto la certezza di avere me in un angolo tutto tuo ma quel cantuccio è stato sempre separato dalla tua vita.
La mia inesistenza s' è consumata in attesa di te e non ho un modo di riavvolgere i giorni per lasciare nella fossa la morte e riportarti a me perché già un istante senza te ha messo a nudo la pochezza di questo sentimento altrimenti, te lo ripeto, non saresti il fantasma di questa mia eterna giornata vuota.
lettera di virginia woolf al marito
Sono disperato ma un presagio c' era. Facevo di tutto per non scrutarne i segni, per buttarmi alle spalle la paura di perderti perché quando nacque il nostro amore e questa è una completa confessione ne ebbi subito l' ossessione: non averti mai più. E cominciavo a pasticciare senza sapere come tenere fede alla tua personalità, alla tua avvenenza, al tuo fascino.
Ho sempre avuto questo incubo: perderti. E poi non essere all' altezza. Provinciale e goffo non reggevo il peso dello stile tuo, così sofisticato. M'incantavo nel seguire le tue dita avvolgere la sciarpa intorno al collo tuo, segnato dal tuo volto in cui ancora l' altro giorno m'involava il batticuore.
Non sapevo si potesse mangiare la cotognata con il formaggio intenso. Già questo fatto mi sembrava una rivoluzione rispetto alla mia vita di prima, m'intossicavo di finezze e ricordo e ne soffro, con vergogna una furiosa litigata che scatenai in casa, il primo Natale del nostro amore, contro la famiglia di mio fratello, accusandoli di essere zotici e noiosi.
Provavo disgusto verso il cattivo gusto, scoprendo peraltro di averlo vissuto, fino a quel momento, con la naturalezza di un'uniforme: provinciale, appunto, e goffa. Temevo mi contaminasse ancora quella vita e in quel tempo avere accanto te era un viverti come il mio destino, lo specchio della mia persona a cui riferire ogni emozione.
Ho sempre avuto l'incubo di perderti avendo chiaro un fatto: qualunque momento di gioia mia, naturale e semplice, ti procurava un dolore acuto come quando un giorno, dal mio taccuino, scorgevi il disegno di una vettura da te considerata pacchiana e per me, invece, un sogno da bambino. Fu, quella stupidaggine, la rivelazione: due mondi lontanissimi io e te. La mia inutile bontà, il tuo inarrivabile essere altrove. Ho sempre avuto questo incubo, perderti: ho perso te.