“UN FOTOGRAFO MI HA VIOLENTATO. NON SONO RIUSCITA A REAGIRE, SONO RIMASTA PARALIZZATA” – IL CALVARIO DI SOFIA MAINENTI, MODELLA 24ENNE DI ROVIGO, CHE DA TRE ANNI ASPETTA GIUSTIZIA PER LO STUPRO SUBÌTO DURANTE UN SERVIZIO FOTOGRAFICO: “MI CHIEDEVA POSE PIÙ ESPLICITE E POI HA INIZIATO A TOCCARMI INSISTENTEMENTE CONTINUANDO A SCATTARE FOTO DELLE MIE PARTI INTIME. HO INIZIATO A PIANGERE, MA NON MI SONO FATTA VEDERE PERCHÉ AVEVO PAURA REAGISSE MALE. MI AVEVA DATO UN NOME FALSO E IN PROCURA…”

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Alessio Antonini per "www.corriere.it"

 

sofia mainenti sofia mainenti

Clic. Il primo scatto, con un vestito rosso molto attillato. Clic. Il secondo scatto, con una canottiera forata stretta in vita. Clic. Un terzo scatto, senza nulla addosso. Poi il buio. Una violenza sessuale durata una decina di clic. Rapida per una macchina fotografica, lunghissima per una ragazza di 21 anni che aveva cominciato da qualche mese la sua carriera di modella di nudo artistico ed erotico. «Il set è iniziato come tanti, il luogo scelto era un bosco appena fuori Mestre – racconta Sofia Mainenti, veronese di nascita e oggi di casa nel Rodigino —. Non mi sono sentita a mio agio fin dalle prime pose, ma quando il fotografo mi ha violentato non sono riuscita a reagire, sono rimasta paralizzata».

 

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Giustizia «paralizzata»

E apparentemente è rimasta paralizzata anche la giustizia. A tre anni di distanza dalla denuncia, le indagini si sono mosse a rilento e il caso di Sofia, oggi ventiquattrenne, è passato da un tavolo all’altro della procura di Venezia. «Quando abbiamo organizzato il set, il fotografo si era presentato con un nome falso – continua la modella — dopo la mia denuncia le forze dell’ordine si sono limitate a cercare il nome vero, ma poi la cosa si è fermata là».

 

«Indagine in corso»

Ad alimentare la rabbia di Sofia un foglio di carta firmato dalla Procura che si limita laconicamente a confermare che c’è un’indagine in corso, ma di risultati neanche l’ombra. «Quando ho fatto la denuncia ho fornito il numero telefonico del fotografo, ho fatto una descrizione accurata della persona, ho dato gli account di Instagram attraverso cui mi aveva contattata e ho raccontato tutta la vicenda allegando anche le foto che mi aveva fatto tranne quelle della violenza che lui non ha mai voluto consegnarmi – continua Sofia – Io ero alle prime esperienze come modella e non sapevo nemmeno che esistessero i centri antiviolenza a cui chiedere consigli. Nessuno mi ha aiutato in nessun modo».

 

Gli screenshot delle chat private

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Sofia ha allegato alla denuncia anche gli screenshot delle chat private in cui il fotografo propone di pagare le foto pornografiche frutto della violenza, ma anche questo non sembrerebbe aver sortito alcun effetto sulle indagini. «L’aggressione è avvenuta a settembre del 2018, la denuncia con richiesta di sequestro delle foto pornografiche è del dicembre dello stesso anno – spiega Sofia – Mi era stato detto che in sei mesi avrei avuto giustizia. A distanza di tre anni sono stata lasciata completamente sola, soffro continuamente di incubi e ho l’impressione che nessuno voglia credermi. Ora voglio un tribunale e voglio che un giudice mi dica che quello che mi è accaduto è una cosa reale. Mi sento pazza da troppo tempo e so di non esserlo».

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L’incontro

Quel pomeriggio di settembre Sofia era salita in auto con il fotografo dopo aver preso un primo contatto attraverso Instagram e poi un appuntamento per telefono. Prima di iniziare i due avevano chiarito che tipo di foto sarebbero state fatte e quali erano i limiti che non si dovevano superare. «Dopo una serie di foto vedo non vedo – racconta Sofia – mi sono accorta che si stava eccitando quindi ho chiesto di fare una pausa. A quel punto lui ha iniziato a chiedere pose più esplicite e poi ha iniziato a toccarmi insistentemente continuando a scattare fotografie delle mie parti intime. Ho iniziato a piangere ma poi ho cercato di non farmi notare perché avevo paura che lui potesse reagire male e che la situazione peggiorasse ancora».

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Il resto è quello che spesso tragicamente succede dopo una violenza. Sofia è rimasta in silenzio. Si è fatta riaccompagnare in stazione a Mestre ed è tornata a casa. Solo là ha iniziato a realizzare quanto aveva subito. E solo dopo tre mesi ha avuto il coraggio di denunciare. Tre anni dopo le sue parole sono ancora un pezzo di carta.

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