Jacopo Iacoboni per “la Stampa”
«Vuoi parlare di calcio, magari anche un po' di storia dei nostri due paesi, prima di Italia-Spagna di martedì?». Javier Cercas legge il whatsapp e richiama quasi subito. Cercas è uno dei più grandi scrittori viventi, nato in Estremadura ma cresciuto a Girona, Catalogna (la stessa provincia di Roberto Bolaño), grande tifoso del Barcellona, més que un club, e di calcio («oggi un po' meno»).
Parliamo a braccio al telefono, senza appunti, da una macchina a una bici. «L'Italia per la Spagna è l'avversario peggiore, il fratello, ma anche un pezzo del nostro inconscio collettivo di spagnoli che sottolinea una nostra sudditanza psicologica, direi atavica, verso di voi», spiega Cercas.
«È una cosa che voi italiani non sempre capite bene, quanto vi amiamo e quanto però siamo stati in sudditanza verso di voi, come un modello, quasi un mito». Cercas sta andando a Bergamo a presentare il suo nuovo libro ("Indipendenza"), in cui costruisce una storia delle sue (questa volta un "falso poliziesco") sullo sfondo del secessionismo catalano, da lui mai amato (eufemismo).
«Ci sono momenti che cambiano la Storia», dice. «Anche la nostra percezione verso l'Italia ha avuto uno di questi momenti». Singoli istanti in cui si modificano eventi che hanno impatto sui destini collettivi, e sulla percezione che abbiamo di noi stessi, come persone o come popoli.
Anatomie di un istante, cambiando leggermente al plurale il titolo del suo capolavoro, in cui Cercas appunto isola, ingrandisce e fotografa l' istante del tentato golpe spagnolo del colonnello Tejero, 1981, la sparatoria al Parlamento spagnolo, le oblique manovre del generale Armada, i servizi golpisti del generale Cortina; e, di contro, tre uomini diversissimi che in un istante si alzano e gli dicono no, rischiando tutto: i padri della Spagna contemporanea, Adolfo Suarez, il generale Gutierrez Mellado e il segretario del partito comunista Santiago Carrillo. Gli unici che, con le pallottole che fischiano nell' aula, non si chinano indecorosamente sotto i banchi.
«La Spagna vive uno di questi momenti anche nel calcio, nel suo rapporto con l'Italia.
Accade nell' europeo del 2008, quando vi battiamo ai rigori. Voi forse non lo sapete, ma nella nostra coscienza collettiva la finale è quella, con l'Italia» (era in realtà un quarto di finale). «Quando andiamo ai rigori, con Buffon in porta e l'Italia davanti, sono certo: abbiamo perso. La svolta invece avviene lì: quando Casillas para i due rigori (nda: a De Rossi e Di Natale) e Fabregas segna quello finale».
Quella, ricorda, «era la squadra di Iniesta, Xavi, Casillas, del giovane Fabregas, di Sergio Ramos, la Spagna che poi vinse tutto. La vittoria ai rigori è l'istante che cambia tutto: per la prima volta invertiamo quel tradizionale senso di inadeguatezza che abbiamo verso sempre avuto verso di voi. Oggi siamo molto più deboli, come squadra. Ma nel frattempo c' è stata quella svolta. Anche se per noi l' Italia resta l' avversario peggiore».
«Siamo due fratelli, che spesso soggiacciono a quello che io chiamo il narcisismo delle differenze, la voglia di sottolineare gli aspetti che ci dividono, e ce ne sono, ma sono infinitamente meno di quelli che ci rendono simili. Tra spagnoli e italiani c'è lo stesso rapporto che può esserci tra Estremadura e Catalogna, o paesi baschi: certo, c' è diversità. Ma siamo di base la stessa cosa, e la stessa lingua. In Giappone, o in America, io vengo scambiato per italiano. A Palermo, dove ero la scorsa settimana, è pieno di Spagna, gli anziani mi capiscono anche se parlo spagnolo».
Poi c' è la letteratura. «Intere generazioni di scrittori spagnoli sono cresciuti nel mito di Petrarca e del petrarchismo. Calvino e Pavese sono stati l' idolo dei narratori della mia generazione. Forse i calciatori non lo sanno, ma queste cose pesano poi anche sul calcio».
La politica non è diversa. «Il partito comunista spagnolo di Santiago Carrillo sceglie l'eurocomunismo, ossia il distacco da Mosca, perché segue, affascinato, il Pci di Enrico Berlinguer, che rompe con l' Urss e sceglie di stare in Europa».
Torniamo sempre all' Europa, e non solo per via degli europei. «Qualche anno fa ebbi una polemica col filosofo italiano Giorgio Agamben, l'autore di Homo sacer, che sosteneva ci fossero due Europe, quella del nord, protestante, calvinista, e quella del sud, cattolica, latina. In un certo senso è vero, quasi ovvio, ma in un altro no: l' Europa è una sola.
Spagna e Italia sono fratelli che non devono cedere al narcisismo dei fratelli: volersi credere diversi. Dobbiamo semmai fare di più un' Europa politica, e così potremo coltivare il lusso di essere culturalmente diversi». Magari non ci parate quel rigore, stavolta.