Alessandra Ziniti per il “Corriere della Sera”
"La informo, che siccome in breve dovrebbe iniziare la metropolitana che è un grosso lavoro e quindi le volevo chiedere che se le interessa qualche calcestruzzi di fare lavorare me lo faccia sapere che la inserisco nel consorziato". Di "pizzini" come questo scrittogli dal boss Salvatore Lo Piccolo, nel covo di Montagna dei Cavalli dove l'11 aprile 2006 fu arrestato, Bernardo Provenzano ne conservava a decine. Testimonianza evidente di come, seppure con grandi difficoltà di comunicazione, non rinunciava certo ai suoi affari. Il suo "tesoro" è uno dei grandi misteri che il boss si porta nella tomba.
Un "buco nero" forse figlio di quella trattativa Stato-mafia della quale (secondo l' impianto accusatorio della Procura di Palermo ancora al vaglio del tribunale) Provenzano sarebbe stato uno dei perni, avendo in qualche modo accettato, per il tramite di Vito Ciancimino, quel contatto con il generale Mori che avrebbe portato alla cattura di Riina in cambio della garanzia della libertà per sé e forse anche della messa in sicurezza del suo patrimonio.
Il metano, la sanità, la grande distribuzione. I pentiti raccontano che questi fossero i settori in cui "zu' Binnu" ha da sempre investito i suoi soldi, appassionato molto di più di società e appalti che non della "roba", sicilianamente intesa come case, terreni, magazzini.
Le aziende del gas dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, la clinica d' eccellenza di Bagheria Villa Santa Teresa dell' ingegnere Michele Aiello, i supermercati in franchising di grandi marchi in Sicilia, da Trapani ad Agrigento. Beni sottratti alle cosche, per svariate centinaia di milioni di euro, tutti intestati a presunti prestanome del boss che gli inquirenti hanno ritenuto in qualche modo "riconducibili" a Provenzano.
Ma il vero tesoro di "Binnu", quello di cui c'è ampia traccia nelle decine di pizzini crittografati con il codice Provenzano, sequestrati al momento della cattura del boss ma anche nella documentazione di altri capimafia, non s' è mai trovato. Nelle casseforti all' estero, investito sui mercati azionari, in partecipazioni societarie, hanno raccontato i pentiti senza che però mai nessuno sia stato in grado di dare un' indicazione decisiva ai cacciatori di patrimoni.
Da quando, nel '92 subito prima delle stragi, sono tornati a Corleone, la moglie e i due figli non vivono nel lusso ma nessuno ha mai pensato che il sostegno alla famiglia potesse venire da quella piccola lavanderia che pure, nel 2002, quando Provenzano era ancora latitante, fu costretta a chiudere per la revoca dell' iscrizione all' albo degli artigiani. O dalla rappresentanza di aspirapolveri o da una borsa di studio in una università tedesca come ricercatore o, per ultimo, dai compensi per le conferenze ai turisti americani che arrivano a Palermo per il tour sui luoghi della mafia, per restare alle ultime conosciute fonti di reddito dei figli del boss.
Negli anni Settanta, a tenere la "cassa" di famiglia era Saveria, la giovane fidanzata che in latitanza non ha mai sposato. Ufficialmente "camiciaia" nullatenente di Cinisi, il paese di Peppino Impastato, fu lei la prima intestataria di una serie di beni e società per centinaia di milioni di lire create da quello che era allora lo storico "consulente" economico di tutti i boss di Cosa nostra, il commercialista Pino Mandalari che aveva amministrato già i beni di Gaetano Badalamenti e Totò Riina.
Gli unici sequestri di beni alla famiglia del boss sono di quegli anni, ma sono davvero poca cosa: quattro case a Corleone intestate ai giovani figli, un conto corrente con 600 milioni di lire al Banco di Sicilia, un paio di piccole aziende intestate al fratello del boss. Saveria affida anche qualche piccolo investimento a un docente di tecnica bancaria, quel Giuseppe Provenzano (non imparentato con il marito) arrestato nel 1984 e poi assolto che dieci anni dopo diventerà presidente della Regione sotto le insegne di Forza Italia.
Ma il boss, come poi rivelerà il pentito Angelo Siino, avrebbe affidato le chiavi della sua cassaforte al geometra Pino Lipari. È a casa sua che i poliziotti trovano i "pizzini" in cui Lipari suggerisce di vendere ville e residence turistici prima che i magistrati li individuino e ci sono le carte che inchiodano un altro prestanome. Si chiama Andrea Impastato, nel 2008 gli sequestrano beni per 150 milioni di euro. Poi, niente più. Provenzano si porta nella tomba le chiavi della cassaforte.