INTERNET IN PARADISO (FISCALE) - ABBIAMO BISOGNO DI UNA TASSAZIONE ‘SPECIALE’ PER GOOGLE, APPLE, AMAZON E FACEBOOK? PURTROPPO SÌ, ED È UNO DEI PIÙ GRANDI FALLIMENTI DELL’UNIONE EUROPEA - CERTI PAESI HANNO PERMESSO DI ELUDERE CENTINAIA DI MILIARDI IN TASSE ALLA FACCIA DEI CONTRIBUENTI ITALIANI, FRANCESI, TEDESCHI ECC…
PROTESTE PER LE POCHE TASSE PAGATE DA GOOGLE
Massimo Sideri per il Corriere della Sera
L' unica domanda che conta è questa: perché abbiamo bisogno di una tassazione «speciale» per le società come Google? Non bastano le 100 o 1.000 che già esistono? Diciamolo una volta per tutte: la risposta è no, non bastano. Lo dicono i numeri. Le leggi sono abituate a movimenti secolari e al passo saggio della tartaruga, ma Internet è stato veloce come un ghepardo.
Ha occupato lo spazio giocando sull' asimmetria informativa di nuove regole del gioco, fatte più dagli algoritmi che dalle istituzioni. La «web tax» è giusta, solo che - questo va riconosciuto - è una delle tasse più infelici della storia se la analizziamo con l' occhio del dizionario: suona più ridicola della tassa sull' ombra (esiste) e della tassa sulle paludi (che è esistita: regio balzello del 1904). Solo pochi anni fa gli utenti, che poi sono i cittadini, mostravano un' indulgenza ideologica e poco informata verso chi ha migliorato la nostra vita quotidiana con la tecnologia.
D' altra parte tassare la Rete suona un po' come tassare il sinonimo di libertà e di opposizione ai regimi dittatoriali.
Erdogan in Turchia oscura la Rete e noi la tassiamo? La variante italiana, la Google Tax, suona poi come un attacco «ad aziendam», un balzello su forse l' unico colosso al mondo che non ha mai chiesto un euro all' utente-cittadino. Tutto ciò ha alimentato la «disinformazia», una forma di governo scivolosa basata su informazioni spesso non comprese, talvolta volutamente false come le fake news.
Le tasse sono materiale politico e la politica dipende dalla percezione popolare: ed è questo l' autogol. Si gioca anche su questioni semantiche la difficoltà incontrata da sempre su una tassa del web che più utile sarebbe chiamare «tassa sulle società del web che fatturano miliardi ma eludono il Fisco di mezzo mondo grazie a trucchetti come il "doppio irlandese" o il "panino olandese"». Esattamente come la tassa sulla palude non era un balzello per chi aveva la sfortuna di possedere un terreno paludoso, ma un fondo per le bonifiche a vantaggio dell' intera collettività.
Il nocciolo della questione è qui: da che mondo è mondo le società hanno usato super consulenti fiscali per «ottimizzare» i soldi da dare agli Stati.
Ottimizzare, si noti bene, è il sinonimo politicamente corretto di eludere, cioè usare gli azzeccagarbugli di manzoniana memoria per riuscire a pagare il meno possibile. Il gioco funziona perché, soprattutto con le proprietà intellettuali, si possono pagare milioni ai superconsulenti per risparmiare miliardi. La cifra non è casuale. La commissaria alla concorrenza europea, Margrethe Vestager, ha calcolato in 13 miliardi le imposte non pagate all' Irlanda dalla Apple (i 2,3 miliardi di multa a Google sono invece per concorrenza scorretta grazie all' utilizzo non neutrale dell' algoritmo).
L' ingegneria fiscale del Double Irish, per esempio, funziona così: nei vari Paesi le multinazionali dicono di non avere «stabili organizzazioni» pur avendo edifici spesso di proprietà e migliaia di dipendenti guidati da un country manager. I redditi così prodotti finiscono in una società A con sede in Irlanda, nell' isola di Cook dove molte aziende hanno migliaia di dipendenti.
Questi guadagni dovrebbero dunque essere tassati al 12,5 per cento, come prevede il regime fiscale irlandese nato in concorrenza agli altri Paesi europei per attirare gli investimenti in un' area che ha sofferto particolarmente in passato.
A questo punto però scatta il pagamento alla società B, sempre in Irlanda ma con sede in qualche Paradiso fiscale, per la «proprietà intellettuale». Il risultato è che nemmeno quel 12,5 per cento viene alla fine pagato se non per una ridotta porzione degli utili miliardari. L' elusione si è spinta troppo oltre lasciando spazio all' avidità: le multinazionali hanno cercato di azzerare in alcuni casi le imposte sugli utili. Il tema è dunque europeo. Impossibile pensare di muoversi singolarmente.
In Italia se ne discute da almeno cinque anni. L' ex premier Matteo Renzi sul tema aveva mostrato pancia politica: prima era andato nel 2015 da Lilli Gruber per dire: «Dopo aver aspettato per due anni una legge europea dal 1 gennaio 2017 immaginiamo una digital tax». Subito dopo, con un tweet prima di un Consiglio dei ministri, aveva fatto marcia indietro. La web tax ci vuole, era stato il nuovo messaggio, ma a livello europeo.
Ora, dunque, l' Europa si muove e l' Italia si accoda (il ministro dell' Economia Pier Carlo Padoan non ha mai fatto mistero di preferire un' azione congiunta). Demonizzare l' economia digitale sarebbe un errore grossolano. Ma tornare a un sano patto sociale è necessario: le tasse sono uguali per tutti.